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Cooperazione & Relazioni internazionali

Il Rais è morto, ma la Libia deve ancora risorgere

di Giulio Albanese

Gheddafi è morto. L’abbiamo letto dappertutto in questi giorni. Ho provato disgusto e pietà nel vedere le immagini del suo corpo straziato. Ma davvero non vi è altra maniera per mettere fine alla sua dittatura? Davvero questo mondo contemporaneo, ipertecnologico e digitalizzato persegue le stesse logiche dei Romani di duemila anni fa? Qualcuno mi ha fatto notare che invece di versare lacrime per un dittatore come lui, il cui destino era segnato, farei meglio a piangere per le sue vittime innocenti. Ecco che allora penso tra me: chissà forse non poteva che finire così… anche se poi rimango sulla mia posizione di partenza. La vendetta, anche contro il satrapo di turno, non porta da nessuna parte.

Ho provato, alla sera, a rileggermi gli scritti di Angelo Del Boca, lo storico italiano che ha prodotto, dal mio punto di vista, la migliore biografia del Rais. Questo signore, Del Boca intendo, oltre che essere un uomo di alto profilo culturale, è un galantuomo. Come ricorda pertinentemente sul suo Blog l’amico Andrea Semplici, “Del Boca si è battuto, con la parole, perché l’Italia riconoscesse le sue colpe coloniali in Libia. Ha incontrato più volte il Colonnello, ne ha avvertito il fascino, ha narrato del suo nazionalismo panarabo, non ne ha mai nascosto i crimini. È stato fra i pochi che, qualche anno fa, rifiutò una onorificenza libica perché non poteva perdonare a Gheddafi i campi di concentramento per i migranti. Disse allora che mai sarebbe tornato in Libia”. In un’intervista a Gheddafi, Del Boca domandò quasi provocatoriamente: “Che successo ha avuto il Libro Verde nel suo Paese? Ho visto che l’avete stampato in milioni di copie, in tutti i paesi del mondo, ma qui in Libia che successo ha avuto?”. Il Colonnello, senza un attimo di esitazione, replicò dicendo: “È stato un fallimento. La Libia è ancora un paese nero, non è un paese verde”. In effetti, al di là della cancellazione dei segni del colonialismo, Gheddafi non è riuscito a realizzare molte delle riforme che aveva in testa. Ad esempio non abolì i clan e soprattutto non riuscì ad innescare un processo di unità tra i vari gruppi etnici, sottovalutando quanto la posta in gioco fosse alta. Sta di fatto che proprio i Rogeban, insieme agli Zintan, gli Orfella e i Tahruna, le cosiddette tribù della montagna, lo hanno tradito.

A questo punto, però, il futuro della Libia resta sospeso nell’aria, proprio come la sabbia quando il vento soffia forte sulle dune del deserto. Tutti idealmente vorremmo che da quelle parti la guerra fosse davvero finita per sempre. Purtroppo le incognite sono moltissime e occorre guardare al futuro con sano realismo. Ad esempio, non sappiamo ancora cosa faranno quelle componenti della società libica che hanno mantenuto fino all’ultimo una certa fedeltà al regime. Rimane poi aperta un’altra grande questione, quella della compatibilità tra le varie anime della rivoluzione. È bene rammentare che i vari clan e gruppi etnici locali non hanno progetti e ambizioni coincidenti. Serve, dunque, una nuova leadership in grado di mantenere unita la Libia, altrimenti il rischio è che possano esservi tante entità sul territorio, in antagonismo le une contro le altre. Cosa dire poi dell’applicazione della Sharia, la legge islamica, da parte del nuovo corso? Chi avrebbe mai immaginato che le bombe della Nato potessero servire a spianare la strada ai radicali islamici? Una cosa è certa: la morte del Rais ha tolto molti dall’imbarazzo. Se fosse stato processato sarebbe stato un grosso problema sia per il Consiglio di Transizione Nazionale (Cnt), composto in gran parte da suoi ex ministri o generali, ma anche e soprattutto per le cancellerie di mezzo mondo. Gheddafi aveva una rete di relazioni e di appoggi internazionali che sarebbero stati chiamati in causa, qualora fosse stato giudicato dal Tribunale dell’Aja. Forse è per questo motivo che qualcuno ha scritto “i dittatori non possono che fare questa fine”.


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