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Cooperazione & Relazioni internazionali

Obama, auguri presidente!

di Giulio Albanese

Barack Obama è stato rieletto, dunque, per un secondo mandato alla Casa Bianca. La notizia è certamente consolante per i Paesi africani, non foss’altro perché le radici paterne del presidente Usa affondano nell’humus del popolo Luo, quello ben radicato sulla sponda orientale del lago Vittoria in Kenya. Detto questo, però, bisogna riconoscere che, nel corso del suo primo mandato, il presidente meticcio ha fatto ben poco per il continente africano, deludendo le aspettative di molti governi. A parte l’appoggio statunitense al progetto di autodeterminazione del Sud Sudan, che peraltro si è rivelato problematico più del previsto anche per le negligenze della diplomazia Usa (un accordo tra Nord e Sud Sudan non poteva prescindere da una definizione chiara e netta dei confini e dall’equa gestione dei profitti petroliferi) , durante la campagna elettorale per le presidenziali Usa, le grandi questioni come quella somala e darfuriana hanno registrato un scarso interessamento da parte della Casa Bianca. Al contempo, nel corso del primo mandato di Obama, la signora Hillary Clinton, in qualità di segretario di Stato, ha tentato di riaffermare, visitando ripetutamente le principali capitali africane, il vecchio teorema del marito Bill, “Trade not Aid”. Una strategia, questa, fortemente criticata da tanta società civile e che, alla prova dei fatti, risponde solo e unicamente a logiche commerciali. Un indirizzo politico, peraltro, osteggiato fortemente dall’avvento dei Brics, Cina e Brasile in primis, che stanno facendo affari a bizzeffe in Africa mettendo in difficoltà molte imprese a stelle e strisce. Una cosa è certa: se si esclude la sponda nordafricana, teatro delle primavere arabe, durante la campagna elettorale di questi mesi, Obama ha nominato l’Africa assai raramente. D’altronde è bene rammentare che Washington, per iniziativa di George W. Bush, poco prima dell’elezione di Obama al primo mandato, aveva reso operativo Africom, un comando militare per coordinare tutte le proprie operazioni nel continente. Col risultato che l’Africa in questi anni si è trasformata in una piattaforma strategica contro il terrorismo internazionale, anche se i risultati, guardando a quanto è accaduto in Nigeria, in Kenya, nella regione maliana dell’Azawad e in Somalia hanno lasciato molto a desiderare. Per non parlare della “rivolta del pane” che, con modalità diverse, ha interessato alcuni Paesi come la Libia, la Tunisia e l’Egitto. Considerando lo scacchiere geopolico africano che, per quanto concerne le cosiddette “commodities” (fonti energetiche e materie prime alimentari), è a dir poco strategico nella contesa tra i Grandi della Terra, c’è davvero da augurarsi che Obama, attraverso la sua politica estera, sostenga le tesi sociali che lo hanno visto paladino in patria, ad esempio, della riforma sanitaria, osteggiata a spada tratta dai repubblicani. A dire il vero, nel giugno scorso, a meno di sei mesi dalla scadenza elettorale, Obama ha provato ad elaborare un piano organico per la cooperazione economica con l’Africa, con l’intento di arginare la supremazia cinese, ma esso sembra rispondere molto ai vecchi criteri della “real politik”. I suoi consiglieri finora, a partire dalla signora Clinton, lo hanno sempre invitato ad evitare l’approccio europeo all’Africa, considerato perdente, basato su aiuti allo sviluppo condizionati al miglioramento dei parametri di democrazia e diritti. Da questo punto di vista la sfida, per Obama, sarà quella di promuovere una governance solidale che tenga conto, non solo delle istanze commerciali della tradizionale governance “corporate”, ma anche delle necessità di tanta società civile che in Africa, da anni, invoca la globalizzazione dei diritti. Ben vengano dunque gli investimenti stranieri, per la realizzazione, ad esempio, di infrastrutture, ma nel rispetto di un “welfare” che assicuri benessere a tutti e non solo alle oligarchie locali. Quelle che in questi anni hanno fatto già tanti disastri!


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