Cooperazione & Relazioni internazionali

Mutamenti di un continente, nel bene e nel male

di Giulio Albanese

Queste che seguono, cari amici lettori, sono alcune considerazioni sull’Africa buttate giù, per così dire, eufemisticamente, prendendo penna e calamaio. In effetti, più rifletto su questo continente e più mi rendo conto di quanto siano evidenti i mutamenti sul piano geopolitico. Essi andrebbero valutati con grande attenzione. Un tempo ci volevano decenni perché cambiasse qualcosa negli assetti nazionali, regionali e a livello continentale, mentre ora l’evoluzione è costante e repentina. Sarà stato, dunque, per eccesso di colonialismo o chissà per quale altra velleità, che Harold Macmillan, tornando da un suo viaggio in terra africana, definì il continente africano come una sorta d’ “ippopotamo galleggiante nelle paludi”.  Una battuta eloquente che, da una parte esprimeva l’imponenza delle ricchezze africane, nascoste agli occhi degli osservatori più acuti, mentre dall’altra rivelava l’indole altezzosa e per certi versi paternalista di un colonialista di alto rango che non rinunciava al suo sarcasmo. A quel tempo, nel 1960, il primo ministro della Corona di Sua Maestà Britannica ebbe la brillante idea di tornare in patria dal Sudafrica a bordo di un piroscafo che impiegò ben dieci giorni di navigazione prima di avvistare le bianche scogliere di Dover. Gli anni che seguirono crearono non pochi grattacapi agli inquilini del “Numero 10 di Downing Street”. Harold Wilson, ad esempio, fu costretto a fare  i conti a malincuore con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Rhodesia bianca (oggi Zimbabwe), mentre James Callaghan dovette confrontarsi con la pulizia etnica contro gli asiatici, attuata dal folle presidente Idi Amin Dada. Nel complesso, comunque, possiamo dire che la fine dell’epopea coloniale, negli anni Sessanta, segnò la rigida imposizione delle logiche della “guerra fredda”, tra Usa e Urss, ai popoli africani col risultato che il continente venne diviso in due grandi settori d’influenza. Ad esempio, lo Zaire di Mobutu Sese Seko era filooccidentale, mentre l’Etiopia era governata da Mènghistu Hailè Mariàm, detto il Negus Rosso perché filosovietico. Naturalmente, gli interessi in gioco erano tali per cui, Cyrus Vance, ex segretario di stato americano, ammise che “l’alleanza con Mobutu è imbarazzante ma necessaria”.

Successivamente, dai primi anni Novanta, si è verificata una vera e propria parcellizzazione del continente a macchie di leopardo, col risultato che, oltre alle ex potenze coloniali e agli Stati Uniti, sono scesi in campo Paesi come la Cina, l’India, il Giappone, la Corea del Sud, la Malesia, il Canada e tanti altri. Ciò ha determinato investimenti notevoli, ma ha acuito a dismisura la corruzione delle leadership locali. A questo proposito, uno dei fenomeni più appariscenti è stato quello del “land grabbing”, traducibile in italiano come accaparramento della dei terreni da parte di società private, fondi di investimento e governi stranieri. Tale fenomeno ha determinato, alla prova dei fatti, una svendita delle immense risorse naturali del continente, soprattutto dal punto di vista agricolo, minerario e del reperimento di fonti energetiche. A ciò si aggiunga la debolezza delle classi dirigenti il cui operato, purtroppo, lascia, ancora oggi, molto a desiderare. Basti pensare al presidente ugandese Yoweri Museveni che dal gennaio 1986 continua a fare il bello e il cattivo tempo, con la sola preoccupazione di mantenere il potere “sine die” per salvaguardare interessi dal forte sapore nepotistico. Lo stesso vale per il governo del presidente camerunese Paul Biya, per non parlare del congolese Denis Sassou Nguesso, del presidente nordsudanese Omar Hassan el Beshir, del burkinabé Blaise Compaoré, o della dinastia gabonese, avviata dal defunto  Omar Bongo Ondimba che ha passato il testimone al figlio Ali Bongo Ondimba.

Sta di fatto che, a partire dal Sudan, negli anni Novanta, lo strapotere cinese si è diffuso a macchia d’olio in Africa ed è quello, comunque, che ha lasciato i segni più evidenti. Pechino ha investito in grandi progetti infrastrutturali, costruito porti, scuole ed ospedali, lanciato iniziative di training e borse di studio, e soprattutto non ha interferito nelle vicende politiche locali, ignorando totalmente l’agenda dei diritti umani. Nel 2000, è bene rammentarlo,  il governo di Pechino aveva investito appena 60 milioni di dollari in Africa. Ma da allora il flusso di capitali cinesi è cresciuto in termini esponenziali, fino a raggiungere livelli 200 volte superiori. Non è un caso se la Banca mondiale (Bm) prevede che entro pochi anni la Cina avrà “esportato” ben 85 milioni di posti di lavoro in Africa. Ma attenzione, l’Impero del Dragone non fa beneficenza e senza altri investimenti stranieri che tengano conto non solo del profitto delle imprese ma anche dei diritti della gente, l’Africa continuerà ad essere una terra di conquista. Comunque, nel bene e ne male, dal 2010 la Cina è divenuta il primo partner commerciale del continente africano, davanti agli Stati Uniti, anche se, gradualmente, è cambiata ancora qualcosa. Si è, infatti, andato delineando un nuovo scenario che ha avuto il suo suggello nel luglio del 2012, con l’elezione della signora Nkosazana Dlamini-Zuma alla carica di  presidente della Commissione dell’Unione Africana (Ua).  Sudafricana, ex moglie del presidente Jacob Zuma, da cui divorziò nel 1998, è la prima donna a ricoprire l’alta carica panafricana, ma anche il primo dirigente di area anglofona a esercitare tale incarico.

Si è cosi affermato un nuovo scenario geopolitico con il Sudafrica (ultimo arrivato dei Paesi emergenti nel cosiddetto cartello dei Brics, assieme a Brasile, Russia, Cina e India) in una posizione di rilievo nelle future scelte geopolitiche del continente. Se la nomina, nel 2008, di Jean Ping a capo della Commissione Ua (predecessore della Dlamini-Zuma, nonché figlio di padre cinese e madre gabonese) aveva sancito, metaforicamente, l’alleanza tra Pechino e l’Africa, la scelta di una donna sudafricana alla guida della Commissione Ua ha rappresentato un ulteriore cambiamento. Senza rinnegare l’amicizia col governo di Pechino, i capi di Stato e di governo africani hanno, per così dire, riconosciuto nei Brics un alleato, per loro degnamente rappresentato dal Sudafrica. D’altronde, già da tempo, diversi personaggi, come il Governatore della Banca centrale nigeriana, Lamido Sanusi, (ex Sanusi Icona Limited – Merchant Bankers, una controllata di Morgan Guaranty Trust Bank di New York, ex Baring Brothers di Londra. …), hanno apertamente criticato il “neo colonialismo” di matrice cinese in Africa. Anche i sindacati sudafricani hanno manifestato in questi anni una notevole insofferenza nei confronti dei cinesi per cui si è pensato di bilanciare i pesi, dando spazio al complesso dei Brics. Non è un caso se, nel marzo scorso (26-27), si è svolto a Durban, in Sudafrica, il Summit di questi grandi cinque Paesi emergenti. I loro leader politici in quella occasione hanno parlato di investimenti in Africa, gettando le premesse per la realizzazione di una Banca di Sviluppo che si dovrebbe occupare del finanziamento di infrastrutture.

Ma cosa si cela, in effetti, dietro queste manovre? L’obiettivo è, certamente, quello di creare un blocco alternativo di potere agli Usa e all’Europa; non necessariamente secondo le dinamiche della “guerra fredda” di cui sopra, ma alternativo. Ecco che allora, se con questo nuovo assetto la Cina deve comunque fare i conti, in termini generali, con i propri alleati Brics, dall’altra, il Sudafrica dovrà comunque sottostare alle pressioni del tandem “Pechino-Mosca” che guarda con ingordigia alle ricchezze del sottosuolo africano, fonti energetiche in primis. La logica di queste dinamiche è sempre quella di sempre, “del bastone e la carota”. Mosca ha cancellato, ad esempio, 20 miliardi di dollari di debito dei Paesi africani alla Russia in cambio di concessioni minerarie, mentre la Cina non ha pudore nell’intrattenere proficue relazioni anche con i peggiori dittatori come il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Nel frattempo, Mosca e Pechino stanno potenziando le forze convenzionali e nucleari spinte da crescenti timori che gli angloamericani intendano muoversi verso lo scontro. Gli sforzi dei due Paesi si intrecciano, come indica l’incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il vicepresidente della Commissione militare cinese, Xu Qiliang, il 31 ottobre scorso a Mosca. Putin, secondo l’agenzia Xinhua, ha enfatizzato il ruolo cardine della cooperazione militare nella partnership strategica, esprimendo la speranza che i due governi possano migliorare il coordinamento nel futuro. Dal canto suo, Xu ha confermato che la Cina desidera approfondire gli scambi militari e la cooperazione con la Russia.

Quali effetti avrà questo nuovo corso in Africa? Cina e Russia intendono certamente fermare l’ingerenza americana che ha portato la Nato in Bulgaria e gli Stati Uniti ad allestire Africom, il comando militare degli Stati Uniti in Africa, formalmente attivo dall’ottobre 2008, responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano in funzione antiterroristica, ma non solo. Ecco che allora il “policy concept” dei Brics si sta sempre più delineando in forma sì alternativa, ma anche egemonica su scala planetaria, con un occhio di riguardo nei confronti dell’Africa per le sue risorse energetiche, industriali e in generale, geostrategiche. Naturalmente, i Brics mirano anche alla creazione di un paniere di valute globali, alternative al dollaro ed all’euro, con l’intento dichiarato di scalzare la supremazia monetaria occidentale su scala planetaria e dunque anche in Africa. A questo punto, viene spontaneo domandarsi quali possibilità di manovra avranno nei prossimi anni i singoli Paesi africani. Il rischio è quello di un acuirsi della conflittualità, anche perché, in tutto questo ragionamento vi è il terzo incomodo, quello del salafismo di matrice saudita che minaccia la fascia Subsahariana. Una cosa è certa: se nel Novecento la linea di demarcazione tra Oriente e Occidente attraversava il Medio Oriente, oggi la faglia sta spostandosi gradualmente sul territorio africano ed interessa non solo la Somalia, ma anche territorio molto più ad Ovest come la regione maliana dell’Azawad. 

Nessuno dispone di una sfera di cristallo per leggere il futuro. Non sappiamo, ad esempio, se i Brics riusciranno, davvero, a collaborare tra loro. In effetti, vi è un’evidente concorrenza economica tra Cina, India e Brasile. Nel 2007 il premier indiano, Mohammed Singh ha siglato accordi con Angola, Uganda, Ghana e Sudan. Per New Delhi, il cuore delle relazioni economiche resta il mercato delle materie prime, soprattutto carbone, uranio e petrolio. Il Brasile, invece, sta promuovendo progetti infrastrutturali in Kenya, Angola e Mozambico. Si parla, addirittura, di un progetto di cavi sottomarini in fibra ottica per collegare il Sudamerica con l’Africa Occidentale.

Intanto, gli Stati Uniti sono sempre più in difficoltà nel contrastare il nuovo indirizzo dei Brics. E dire che la politica africana della Casa Bianca si caratterizzava, dagli anni della presidenza di Bill Clinton, per un notevole pragmatismo incentrato sulla creazione delle condizioni economiche e di mercato idonee a perseguire strategie di globalizzazione. Ma il modello “Usa” in Africa, con tutte le differenze pur percepibili a seconda che Washington sia retta dai democratici o dai repubblicani, non è avvincente come quello cinese e dei Brics in generale. Pechino, infatti, a differenza degli Usa e dei suoi alleati occidentali, offre grandi crediti, prestiti agevolati per la costruzione di infrastrutture, al fine di generare empatia nei confronti dei governi africani. In questo modo le autorità cinesi ottengono accordi economici vantaggiosissimi a lungo termine sulle materie prime provenienti dall’Africa, in cambio di aiuti e accordi per la condivisione della produzione e delle royalties.  A ciò si aggiunga  la logica statunitense per cui esiste una gerarchia nelle relazioni con i Paesi africani: alcuni sono considerati affidabili, altri meno, altri ancora per nulla. I cinesi di converso trattano con tutti, infisciandosene della moralità dei governi o delle loro ideologie. E cosa dire della vecchia Europa? Essa appare sempre più pervasa da atteggiamenti contrastanti: in sede di Unione (Ue) si enuncia il principio della multilateralità nelle relazioni con l’Africa, mentre i singoli governi (soprattutto Francia e Regno Unito) si muovono all’insegna del bilateralismo, come se i rapporti con i singoli Stati africani prescindessero dagli impegni della Commissione di Bruxelles. Dal punto di vista commerciale, la Ue insiste nell’imporre i cosiddetti  “Economic Partnership Agreements”, in italiano “Accordi di Partenariato Economico”, meglio conosciuti con l’acronimo “Epa”. Un’iniziativa che vede coinvolta l’Unione Europea con 77 Paesi in via di sviluppo, riuniti nel cartello Acp (Africa, Caraibi e Pacifico), molti dei quali ex colonie europee. Morale: l’Europa chiede ai Paesi Acp di eliminare tutte le barriere all’insegna del libero scambio, come richiesto dalle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), con l’idea che così sarà possibile incentivare la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo e contribuire allo sradicamento della povertà. Come era prevedibile, soprattutto i Paesi africani, hanno contestato duramente questo indirizzo, anche se alcuni hanno dovuto cedere. La motivazione è rintracciabile nella convinzione che gli Epa, con il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei, vadano a provocare un danno irreversibile alle già precarie economie nazionali africane, duramente provate dalla crisi finanziaria mondiale. Tutto questo, naturalmente, non giova alla buona reputazione dell’Europa nel grande consesso africano.

Ma attenzione, se qualcuno pensasse che basta disfarsi delle ingerenze dell’Occidente per risolvere i problemi dell’Africa, si sbaglia grossolanamente. In altre parole, il grande continente africano che, per usare il gergo dell’Economist, è passato da “hopeless” (senza speranza) a “hopeful” (speranzoso), deve fare ancora molta strada. Non solo per quanto concerne l’apertura al multipartitismo e l’alternanza al potere. La vera sfida rimane, infatti, quella della lotta contro l’esclusione sociale. Nella sua analisi, il settimanale britannico ha dimenticato di stigmatizzare il forte influsso delle vecchie oligarchie africane (molte delle quali massoniche) che continuano ad incamerare la stragrande maggioranza dei denari generati da un Pil continentale attestato attorno al +6% annuo. Anche perché i dati positivi sulla crescita dell’economia africana vanno comunque interpretati e per certi versi presi col beneficio d’inventario. A volte, anche solo far emergere una parte dell’economia informale africana, per così dire, “tracciandola” e registrandola all’interno degli scambi economici di questo o quel Paese, si traduce in un consistente aumento del Pil (che oggi, grazie a nuove tecniche di rilevamento consente di quantizzare ciò che prima esisteva, ma non era registrato). Mentre invece la realtà economica e reddituale reale della gente comune, alla prova dei fatti, non è cambiata più di tanto. Inoltre, la semplice misurazione della crescita del Pil non dice assolutamente nulla rispetto a quella che è la sua distribuzione. Emblematico è il caso dell’Angola dove si registra grazie al settore petrolifero un +12% che finisce puntualmente nelle tasche dell’attuale oligarchia al potere, quella del presidente José Eduardo dos Santos. Uno stesso aumento del reddito molte volte, come nel caso angolano, risulta tutto concentrato nelle mani di una sola persona o di una sola famiglia. Occorre poi ricordare che molti Paesi africani stanno sì crescendo, ma partendo da condizioni di disagio economico particolarmente gravi. Questo in sostanza significa che gli spazi di crescita percentuale possono essere rilevanti, ma in rapporto a un Pil di partenza molto basso, paragonabile a una piccola regione italiana. Sta di fatto che a livello continentale, solo il 20% della popolazione ha accesso diretto all’energia elettrica. Secondo le Nazioni Unite, oltre 600 milioni di africani oggi vivono senza l’accesso all’energia che servirebbe a soddisfare i loro bisogni fondamentali come la cucina, l’illuminazione e il riscaldamento. Tutto ciò rende la questione energetica una delle grandi sfide guardando al futuro e soprattutto considerando che stiamo comunque parlando di un continente che possiede nelle proprie viscere le più richieste fonti energetiche, come ad esempio il petrolio, il gas e l’uranio.

Saranno i Brics capaci di affermare i diritti delle masse impoverite? Qualche analista di questioni economiche guarda all’Africa oggi come ad un “Big Deal”. Forse sarebbe più corretto dire che rappresenta certamente una grande opportunità per chi fa affari e un po’ meno per gli africani che rischiano d’essere, parafrasando un proverbio nilotico, come l’erba del prato quando gli elefanti combattono. Viene spazzata via. La sensazione è che il cammino sia ancora molto lungo per affermare l’agognato rinascimento africano, tanto caro a Nelson Mandela. Molto dipenderà dalla capacità della società civile di essere il vivaio di nuove classi dirigenti.  Sarà la Storia a giudicare. Vengono alle mente le belle parole di Albert Tévoédjrè, in un suo celebre libro uscito trent’anni fa nella sua edizione italiana, “Povertà, ricchezza dei popoli”, pubblicato in Italia dall’Editrice missionaria (Emi). Nell’intento, per certi versi utopico, di ridisegnare la politica e l’economia dell’allora Terzo Mondo, l’intellettuale beninese apriva il quarto capitolo del suo libro con una poesia di Salvador Diaz Miròn: “Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del necessario”. L’Africa ha indubbiamente bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come scriveva lo stesso Tévoédjrè, “prima di tutto dei dirigenti della vita sociale”, servitori della “res publica” intesa come “bene comune”.   


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