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Cooperazione & Relazioni internazionali

Ebola colpisce ancora…

di Giulio Albanese

Cari amici, sono appena rientrato dall’Africa dove ho visitato due Paesi a cui sono molto affezionato: il Kenya e la Tanzania. Mentre ero lì, sui giornali locali, mi è capitato di leggere in più circostanze della gravissima epidemia di Ebola che da gennaio ha colpito l’Africa occidentale con un bilancio di 603 morti. La cifra è stata resa nota ieri dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tra l’8 e il 12 luglio ci sono stati 68 nuovi decessi: 52 in Sierra Leone, 13 in Liberia e tre in Guinea. La malattia, contro la quale non esistono vaccini, ha iniziato a diffondersi in Guinea e successivamente è arrivata in Sierra Leone e in Liberia. Malgrado l’intervento delle autorità sanitarie internazionali, purtroppo, la diffusione del virus non accenna a fermarsi. Mentre scrivo, ho di fronte a me l’ultimo dispaccio dell’Oms da cui risulta che il numero totale dei casi di febbre emorragica registrati come Ebola – che siano casi confermati in laboratorio, probabili o sospetti – è di 964 (solo in Guinea sono 406 e proprio in questa ex colonia francese, dall’inizio dell’epidemia, sono morte 304 persone).

Naturalmente, quando si parla di ebola, il contesto è quello della cosiddetta “medicina tropicale”, un termine che molte volte maschera quella che invece sarebbe giusto chiamare medicina del sottosviluppo, del mancato sviluppo, o ancora, meno eufemisticamente, medicina della povertà. Infatti, il tragico stato di salute delle popolazioni della fascia tropicale è sintomatica non sempre di fattori climatici dove determinate patologie si manifestano, ma del fatto che i Paesi in questione sono caratterizzati da una terribile mancanza di risorse, soprattutto economiche, ma anche sociali, culturali e professionali. Un diritto negato, dunque, quello della salute che esige un maggiore impegno a livello locale, ma più in generale su scala planetaria. Per quanto, dal punto di vista scientifico, alcuni fenomeni epidemiologici come ebola rappresentino ancora una sfida per i ricercatori, c’è un filo rosso di responsabilità residuali o tradite. Basti pensare a certi regimi i quali, pur disponendo d’ingenti risorse finanziarie, peraltro amministrate secondo logiche nepotistiche, temono che l’incentivazione dei servizi sociali, sanità in primis, aumenti quella domanda di democrazia che potrebbe mettere a repentaglio le loro leadership. Sta di fatto che in molti contesti, malattie in sé curabili continuano a uccidere milioni di persone, quando invece potrebbero “semplicemente” non ammalarsi se solo fossero messi nelle condizioni di vivere dignitosamente, con un’igiene decorosa, un’alimentazione adeguata e una sanità di base, quella che, con semplici vaccinazioni e una struttura essenziale di assistenza, permetterebbe di prevenire o contenere le patologie più diffuse.

È bene rammentare che l’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo afferma che “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”. Il dato inequivocabile è che la società civile – missionari e ong in testa – devono continuare a battersi in ogni sede per il rispetto universale di questo diritto. Forse non tutti sanno che nel 2013, secondo il recente rapporto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) il business mondiale delle armi è stato di 1747 miliardi di dollari. Quasi quarant’anni dopo la prima diagnosi, per Ebola non esiste ancora una cura. Una delle ragioni è che esistono molti ceppi del virus e che la ricerca ha bisogno di finanziamenti. A questo proposito, l’indifferenza è davvero il peggiore dei mali.


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