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Cooperazione & Relazioni internazionali

Somalia, il cammino è ancora tutto in salita

di Giulio Albanese

Dove sta andando a finire la Somalia? È possibile che questa nazione africana non riesca a risollevarsi? Le autorità di Mogadiscio sono effettivamente in grado di contrastare il terrorismo? Queste sono alcune delle domande che solitamente la gente mi rivolge, quando vengo invitato a parlare in giro per l’Italia delle tristi vicende che assillano questo Paese del Corno d’Africa. Indubbiamente, la conquista del porto di Barawe, annunciata il 5 ottobre scorso dai media somali, ha suscitato clamore negli ambienti della società civile locale. Condotta da forze congiunte dell’esercito regolare somalo e reparti dell’Amisom (Missione dell’Unione Africana in Somalia), l’operazione rappresenta un ulteriore passo in avanti nella lotta contro il gruppo degli al-Shabaab. In particolare, dovrebbe consentire al governo internazionalmente riconosciuto di Mogadiscio di consolidare il controllo in quei settori meridionali della Somalia ancora occupati dal gruppo jihadista.

L’occupazione di Barawe, 180 chilometri a sud della capitale, si colloca nell’ambito della più ampia operazione denominata Oceano Indiano che ha, come obiettivo strategico, il pieno controllo della costa somala, impedendo i rifornimenti di armi e munizioni dalla sponda yemenita, destinati alla formazione terroristica. Occorre comunque molta cautela nel valutare i progressi delle forze lealiste nel percorso di rafforzamento delle istituzioni somale e nella lotta al terrorismo nazionale e internazionale. Se da una parte è vero che gli al-Shabaab, a inizio settembre, hanno subito, durante un raid aereo statunitense, un duro colpo con la morte del loro leader, Ahmed Abdi Godane, dall’altra, gli osservatori invitano alla cautela trattandosi sempre e comunque di una guerra asimmetrica. Infatti, gli insorti continuano a disporre di appoggi logistici nelle zone rurali. La Somalia, è bene rammentarlo, è in stato di dissolvimento dal lontano 1991, quando venne destituito l’allora presidente Siad Barre. In tutti questi anni, a fasi alterne, ha risentito fortemente delle continue dispute tra le fazioni interne capeggiate da vari “signori della guerra”. Ciò ha determinato una parcellizzazione del territorio, su base clanica, ma anche per interessi legati ad ogni genere di traffici illeciti. Sta di fatto che in questo contesto, riuscire a ristabilire sul campo i presupposti per uno stato di diritto significa riuscire a bonificare il Paese dal terrorismo. La conquista di Barawe, in questo senso, costituisce una vittoria importante, ma non ancora risolutiva.

Molto dipenderà dal potere politico delle autorità di Mogadiscio di negoziare con tutti gli attori interessati a porre fine alle dispute territoriali, sgombrando il campo dalla minaccia jihadista. Dal punto di vista geostrategico, sconfiggere al-Shabaab significherebbe per l’esecutivo somalo non solo controllare le aree sottratte, garantendo la sicurezza ai civili, ma soprattutto riacquistare credibilità e autorevolezza di fronte all’opinione pubblica. D’altronde, a Mogadiscio, tuttora, l’insicurezza rappresenta il principale fattore destabilizzante. Lo scorso luglio, tra l’altro, i terroristi erano riusciti a colpire perfino il palazzo presidenziale, confermando la loro capacità d’intervento contro obiettivi civili e istituzionali. Il Paese, nel suo complesso, ha forti potenzialità dal punto di vista dello sviluppo, soprattutto se si considerano, oltre al settore ittico, i giacimenti di petrolio del Puntland e off-shore nell’Oceano Indiano, per non parlare delle riserve di gas e uranio. Ma forse è proprio questa ricchezza del sottosuolo, spesso volutamente sottaciuta, a condizionare il futuro del Paese.

Vi è comunque, un ultima considerazione da sottoporre all’attenzione di chiunque abbia a cuore il destino della Somalia: oltre al cosiddetto terrorismo, il Paese è purtroppo ostaggio di una corruzione endemica, rispetto alla quale un po’ tutti fanno orecchie da mercanti. Per risollevare le sorti della Somalia, la questione cruciale non è tanto la mancanza di fondi, visto che i donor internazionali, come l’Unione Europea (Ue), da anni contribuiscono finanziariamente agli sforzi per stabilizzare il Paese, ma è il sistema perverso che impedisce al denaro di arrivare dove serve. A questo proposito è illuminante quanto affermato da monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di Gibuti, in una recente intervista all’agenzia Fides: “I soldati somali in diverse occasioni hanno venduto le loro armi agli Shabaab, quando addirittura non si sono arruolati nelle loro file. Questo perché da mesi non ricevevano lo stipendio, regolarmente versato dall’Ue ma che finiva disperso nelle trafile burocratiche interne dell’amministrazione somala; in pratica qualcuno in alto si appropriava di questi fondi”. Qualcuno, a Bruxells, è informato?


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