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Giuseppe era un amico

di Lorenzo Maria Alvaro

Un pensiero rapido e affettuoso ad un amico, compagno e fratello che se n’è andato troppo presto.

Giuseppe è stato un amico. Uno di quelli veri. Uno di quelli che diventa fratello. Mentre per molti di noi l’amicizia è nata attraverso un’affinità elettiva, una comunanza di stoffa umana, con Giuseppe è stato diverso. Tutto lo spartito della sua compagnia si è sempre adagiato sulle pause e sui silenzi. Tutt’altro che qualcosa di monotono. Come nei grandi componimenti, solo la pausa giusta rende le note successive colme di significato.

Il suo modo di affrontare le cose in punta di piedi aveva, infatti, molto poco a che fare con la timidezza e molto invece con la coscienza e l’attenzione. L’intuizione rispetto a ciò che conta.

In un gruppo come il nostro, fatto di parole, risa, schiamazzi e spesso alterchi non era il tipo taciturno che se ne sta sullo sfondo. Non era quello con poco da raccontare, l’ingegnere elettronico noioso.

Giuseppe era l’ascolto. La capacità di lasciare spazio all’altro. Il suo silenzio valorizzava e sottolineava il nostro rumore. Investendolo di responsabilità.

Le proprie passioni le viveva in funzione di sé, non degli altri. Non arrampicava per avere il fisico scolpito, non giocava ad hockey per sentirsi parte di un gruppo. Non cucinava per essere “uno di noi”. Erano le sue passioni e le coltivava con tenacia. Erano il modo in cui si costruiva come uomo. In questo è sempre stato il più maturo.

Non so dire se siamo stati sempre in grado di avere la sensibilità per interpretare quei silenzi e quelle pause. O di assumerci l’onore di rendere il nostro rumoroso vivere insieme significativo. Tante volte lo abbiamo preso in giro. Abbiamo scherzato sul suo modo di essere riservato e un po’ eccentrico.

Quando è arrivata la malattia però abbiamo cercato di rispettare quella dignità e quel pudore per cui non voleva farsi vedere sofferente. Abbiamo cercato di accompagnarlo per come lui ha sempre fatto con noi.

Ci ha insegnato il valore delle piccole cose, dei piccoli gesti. Come quando ci cucinava i dolci siciliani, perfetti, rifuggendo i complimenti. Li faceva perché sapeva che ci piacevano. O come quando provava a stemperare le discussioni con un disarmante: «Buono questo caffè, non trovi?», per farci concentrare sui piccoli dettagli. Perché l’importante, e lui lo sentiva più di noi, era il fatto di essere tutti assieme.

Per ogni nostro successo, professionale o familiare, il suo semplice e conciso: «Sono molto contento per te», accompagnato dall’immancabile sorriso schivo, assumeva tutto il peso della sincerità. Lo era davvero contento, gratuitamente.

Ha sempre parlato poco della malattia. Ma ha combattuto come un leone, con tutta la rabbia, tutta la tenacia e tutta la forza che aveva. Che erano enormi.

Questa forse è stata l’ultima cosa che ci ha insegnato Giuseppe: il suo amore impetuoso e la sua passione travolgente per la vita, celebrati in silenzio. Per curarsi sempre dell’essenziale.

 

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» Italo Calvino, Le città invisibili


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