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“Love Mi” di Fedez e la partnership profit – non profit

di Lorenzo Maria Alvaro

Leggendo un articolo del critico musicale Michele Monina, pubblicato da Optimagazine, dal titolo “Lo spirito dei tempi, prendere tutto o lasciare”, dedicato al concerto Love Mi, organizzato da Fedez per raccogliere fondi in favore della Fondazione Tog di Milano mi sono imbattuto in una serie di considerazione su cui credo valga la pena soffermarsi.

Monina, con il consueto slang colorito, parla della musica espressa su quel palco (a suo dire di basso livello) e, in qualche modo, della relazione tra generazioni, sottolineando come non si tratti di musica che gli adulti non capiscono e che col tempo si storicizzerà e verrà rivalutata ma solo di brutta musica, per infine arrivare ad affermare il suo sacrosanto diritto di dire quello che gli pare, in linea con lo spirito dei tempi odierni. Quello in cui ognuno scrive sui social quello che vuole. Ora sul tema dei gusti musicali non mi addentro. Ognuno ha i suoi e dibattere di preferenze è sempre un po’ stucchevole. Nel discorso di Monina ravviso comunque alcune imprecisioni (ad esempio sui temi che a suo dire trattano generi come rap/trap, sul tema della relazione tra generazioni, che a mio avviso, soprattutto oggi, è leggermente più complicata di così).

Come spesso capita però Monina, nei suoi verbosi articoli, spazia e travalica i confini del mero discorso musicale. In questo caso, in uno post scriptum, sottolinea “potrei anche esprimere molte remore sulla spettacolarizzazione della beneficenza, del dolore, della malattia, dell’impegno nella difesa dei diritti civili che Fedez e signora stanno portando avanti, spettacolarizzazione che finisce sempre per avere una forte deriva commerciale, ma anche questo è lo spirito dei tempi, e mica è colpa nostra se viviamo davvero in tempi di merda”.

E questo, di tutto l’articolo, è senza dubbio il passaggio più rilevante, almeno per uno come me che lavora nella comunicazione di una realtà non profit.

Mi perdonerà quindi lo stesso Monina se prendo spunto dal suo scrivere per fare un ragionamento che esula fortemente dall’ambito musicale. I due concetti chiave sono in sintesi “spettacolarizzazione del dolore” e “deriva commerciale della beneficienza”. Partendo dal primo per “spettacolarizzazione” si intende, immagino, la grandissima attività di comunicazione che Fedez costruisce intorno al suo impegno sociale oltre che sui suoi problemi di salute. Siamo di nuovo in ambito etico. Anche qui è questione di gusti privati ma diciamo che, almeno in ambito corporate (e penso nessuno dubiti del fatto che Fedez è di fatto una grande azienda di comunicazione), portare avanti la visione puritana della beneficenza nel silenzio della propria intimità è profondamente antistorico. L’aggiunta della “commercializzazione” è ancora più curiosa: l’idea è che Fedez e Ferragni portino avanti una deriva commerciale della propria responsabilità sociale d’impresa.

Ora i tempi della charity strettamente intesa (un’azienda dona dei soldi ad una onlus. L’azienda fa un po’ di brandwashing e la onlus fa i suoi progetti) sono agli sgoccioli. Non è più questo il modo di procedere nella partnership tra profit e non profit. Oggi le aziende sono molto più evolute e hanno superato anche la csr e guardano all’impatto. Per semplificare le aziende hanno capito, e stanno capendo sempre più, che le nuove generazioni hanno una sensibilità diversa e sono molto attente a certi temi (ambiente, diritti, inclusione…) e consumano sulla base di queste convinzioni. Al riguardo è sempre molto lucido Paolo Iabicus Iabichino. Se già oggi infatti determinano cambi di consumo nelle proprie famiglie, domani, saranno loro i protagonisti diretti di quello che l’economista Leonardo Becchetti chiama “voto con il portafoglio”.

Ma come rimanere competitivi sul mercato in un mondo che cambia dando un ruolo così strategico all’impatto della propria attività produttiva e commerciale? Una delle risposte, delle tante, sta proprio nella partnership con enti sociali. Ma nell’ottica di una relazione evoluta nel quadro della quale si costruiscono insieme non solo progetti squisitamente sociali ma anche e soprattutto prodotti e servizi. Sul fronte non profit questo assume un’importanza decisiva perché viviamo un’epoca in cui scarseggiano risorse pubbliche (in particolare non vincolate a finalità precostituite). Significa che scarseggiano quelle risorse con cui un ente sociale paga gli stipendi dei suoi dipendenti, costruisce progetti emergenziali straordinari (vedi Covid e Ucraina) e in generale investe nella crescita dell’ente.

È credibile o pensabile, come lascia immaginare Monina, che tutto questo avvenga solo ed esclusivamente affidandosi ai buoni sentimenti di imprenditori e capitani di industria che regalano i soldi al Terzo settore? Un progetto sociale sensato e sostenibile, anche sul lungo periodo, deve necessariamente avere un ritorno positivo per tutti gli attori coinvolti: il profit, il non profit e i beneficiari. Quindi per una realtà imprenditoriale che ha come primo punto di interesse gli shareholder, un ente sociale che ha come suo primo punto di interesse gli stakeholder e i beneficiari che rappresentano insieme gli stakeholder del sociale e i potenziali clienti dell’azienda, cioè noi e le nostre comunità. Qualcuno teorizzerebbe mai una partnership tra due imprese, una coproduzione di un prodotto per esempio, immaginando che una delle due guadagni mentre l’altra ci rimetta?

Venendo al caso di specie vorrei chiarire in primo luogo che non sono un fan di Fedez e poi che conosco bene Tog perché è la fondazione per cui lavora mia moglie. Fortunatamente Monina si è concentrato quasi esclusivamente sul cantante togliendomi dall'imbarazzo di un'eventuale conflitto di interessi. Detto questo la partenership Fedez-Tog è in parte di vecchia charity (il musicista destina i guadagni della sua opera come elargizione liberale all’ente sociale) e in parte in forma di csr, nella misura in cui costruisce un’attività di raccolta fondi, come Love Mi, ma anche altre. Oggi esistono, come dicevo, casi ancora più evoluti in cui la relazione arriva ad essere paritetica e in cui entrambe le realtà concorrono con il proprio know how a progetti che creano valore per tutti.

Nel giudicare un’operazione di questo tipo, più che un discorso etico relativo all’utilizzo a scopo comunicativo della beneficienza, dovrebbe piuttosto avere un certo peso il senso, inteso come coerenza tra gli obiettivi posti e l'azione costruita. Nel caso di Fedez abbiamo un musicista milanese che decide di sostenere un’opera sociale del suo territorio, che aiuta bambini con disabilità, e lo fa con un concerto gratuito dedicato in particolare ai giovani. L’obiettivo è chiaro, la destinazione dei fondi anche e il ritorno per l’artista evidente in termini di posizionamento, immagine e lancio della sua Fondazione Fedez. Per Tog significa donazioni, esposizione mediatica (quindi potenziali nuove donazioni) e nuove opportunità di progetti corporate prima impensabili. È tutto molto lineare. Non sempre è così. Così non è stato, ad esempio, nell’ambito nella partnership tra WWF e Jovanotti per i Jova Beach Party, su cui negli anni di Vita ho scritto profusamente. In quel caso l’accordo era puramente di sensibilizzazione, il WWF per parlare ai giovani di tutela dell’ambiente aiutava Jovanotti a rendere i suoi concerti in spiaggia a impatto zero. Piccola questione: il miglior modo per non impattare su una spiaggia e non farci un concerto. Se poi il concerto costa cento euro ed è solo una delle tante azioni di una costellazione di attività che nulla hanno a che fare con l’impatto ambientale e tutto con l’impatto sul conto in banca dell’artista ecco che si è difronte ad una partnership con poco senso. Altri esempi possono essere altre raccolte fondi del passato con protagonsiti proprio i Ferragnez.

Il tema della relazione tra generazioni, e quindi a cascata della musica rap/trap, può non sembrare ma è capitale in questo contesto. Mi ha molto colpito come Monina, parlando da critico ma anche da padre, abbia sottolineato che se i suoi genitori non erano interessati alla musica che ascoltava da ragazzo, lui è invece molto indaffarato a spiegare ai suoi perché quello che ascoltano è orrendo. Mi ha stupito perché non c’è (questo almeno si evince dal pezzo, lungi da me volerlo affermare in senso assoluto) spazio per l’ascolto. Cioè l’idea che un padre possa avere qualcosa da imparare da un figlio o che comunque nutra un interesse circa i gusti e le motivazioni che muovono il figlio nelle scelte musicali, o in altri campi. Se questo afferisce alla sfera privata dell’educazione famigliare è naturalmente affare di ciascun nucleo. Quando invece si traferisce in un ambito di relazioni tra diverse generazioni di una stessa comunità assume una connotazione diversa e pubblica: l’ascolto è un tema sociale e politico.

Bollare i testi di questi artisti come “lingua comprensibile solo a quella generazione” e espressione di “una generazione in perenne bilico tra depressione cronica e voglia di evasione portata allo stremo” non solo dimostra di non averli ascoltati o letti (penso a dischi come quelli di Ghali, Marracash, Paky. Ma anche ad alcune cose di Lazza, Baby Ganga, Izi, Gemitaiz. La lista è lunghissima), ma di non rendersi neanche conto, ammesso e non concesso che ci sia solo questo, come la depressione di questa generazione derivi dal disastro, sia economico che sociale, che ha ereditato da quelle precedenti (cioè anche quella di Monina) così come la “teoria dell’evasione” è qualcosa che non si sono inventati ma hanno respirato dal mondo degli adulti di oggi. Che genitore è quello che guarda i figli, li disprezza e li accusa di essere cresciuti male senza ma porsi il problema di esserne stato lui l’educatore?

La verità è che in quei testi ci sono molte chiavi di lettura per capire i ragazzi. Se affrontiamo la questione da un punto di vista squisitamente culturale capire serva per educare. Ma capire servirebbe anche per costruire il mondo di domani. Dovrebbe essere uno dei primi punti in agenda dell’impresa, del Terzo settore e della politica cercare di capire i consumatori, i donatori e i cittadini che sono e soprattutto che saranno. Capire i nuovi bisogni e i vecchi bisogni nel contesto odierno. Che scelte strategiche possono essere fatte nella più completa autorefenzialità?

Love Mi ha raccolto 130mila euro. Un po’ pochino a fronte di uno sforzo organizzativo titanico e con una diretta nazionale su Mediaset. Come si spiega? La risposta generalmente è che i giovani non hanno capacità di spesa e non sono interessati a certe cose. Questo nonostante Greta Thumberg e i Fridays for Future, che avrebbero dovuto dimostrare ampiamente il contrario. A nessuno è venuto in mente che oggi chiunque abbia meno di 40 anni ha un abbonamento telefonico che non gli permette di mandare un sms solidale, entra in posta, quando è assiduo, due volte l’anno e in banca ci va solo nel caso della stipula di un mutuo. A nessuno insomma è venuto in mente che sono più che altro gli strumenti ad escludere quella platea di potenziali donatori. Ancora una volta totale autorefenzialità.

Come mi ha raccontato tempo fa Andrea Ruckstuhl, direttore per l'area EMEA di Lendlease, un’azienda che non proponga oltre ad una buona remunerazione anche azioni improntate alla sostenibilità chiare e concrete perde l’attrattività nei confronti dei giovani. Che tradotto significa perdere i talenti in circolazione. Significa smettere di essere competitivi sul medio periodo e quindi perdere quote di mercato. Perché non dovrebbe essere lo stesso per quello che riguarda la società e le comunità?

P.s.
Mi permetto una nota. È curioso come Monina somigli tantissimo nel suo scrivere ai rapper/trapper che disprezza. Anche lui “flexa” (si automagnifica) dicendo che può dire quello che vuole perché lo pagano per scrivere. Né più né meno quello che fa Sfera Ebbasta mostrando le collane. Anche lui “dissa” (prende in giro e insolentisce) quando si riferisce al lettore dandogli dei “bimbominkia”. Addirittura anche lui spesso si riferisce a presunti haters, usando l’artificio del nemico immaginario, tipico di quei brani rap che come scopo hanno quello di dimostrare le capacità tecniche dell’artista. Forse l'unico problema è che sono troppo simili per prendersi. Al di là degli scherzi Monina è una persona competente e molto impegnata nel coltivare e pubblicizzare musica giovane che ritiene di livello, in particolare (altra nota di merito) femminile. Che nei pezzi faccia l’irriverente non mette in discussione nulla della sua passione e del suo impegno. Ho usato il suo pezzo solo perché è capitato.

P.p.s
Qui il brano di Paky “Quando piove”. Può piacere o non piacere. Ma io non voglio credere che sentendo un testo come questo si possa rimanere indifferenti.


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