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Cameron, il welfare e la filantropia

di Massimo Coen Cagli

Mentre la Scuola di Roma realizzava la conferenza “Fundraising. Un altro welfare è possibile”,  cercando di intessere nuovi possibili rapporti tra il mondo dei donatori, il non profit, e i bisogni di benessere della comunità, il premier britannico Cameron – con ben altra autorità e peso politico – prepara la sua  strategia per il nuovo welfare da portare al G8 del 17 giugno. Toccando gli stessi temi, più o meno.

Dice Cameron che il vecchio welfare state è morto e deve rinascere su nuovi presupposti. In particolare un uso della filantropia quale investimento ad impatto sociale. Insomma un intervento “sociale” dei possessori di grande reddito per la ricostruzione del welfare. Infatti Cameron assicurerebbe questo intervento a partire dal coinvolgimento di grnadi fondazioni (Bill Gates, Rockefeller e compagnia cantando).

Se da un lato la proposta sottointende un modo più moderno di vedere l’uso sociale della ricchezza, dall’altro lato lascia ancorato il welfare alle dinamiche di economia di stato e mercato. Peraltro non si parla di come dovrebbe essere questo nuovo welfare, ma solo del modo per sostituire il finanziamento pubblico. Il che comunque non è poco.

Il G8 quindi sarà chiamato a confrontarsi con una nuova linea: un welfare non più totalmente di stato. Chissà cosa diremo noi italiani a proposito. E chissà se l’attuale governo ha formulato un pensiero a riguardo. Temo che arriveremo a tale confronto senza una linea precisa e forse saremo colti di sorpresa. Anche di questo ha parlato Marco Morganti, AD di Banca Prossima durante la nostra conferenza (che potete risascoltare qui). Mentre invece avremmo molto da dire se guardiamo a come l’Italia ha costruito il suo welfare prima che diventasse completamente “di stato”.

Mi piace della posizione di Cameron il coraggio di dirsi che così come funziona oggi il welfare è insostenibile. Non mi piace il fatto che nella strategia proposta, la comunità, il non profit e gli altri soggetti della società civile (e quindi anche le aziende) non abbiano un ruolo di protagonista.

Per me la questione sta proprio qui: un fundraising per il welfare non può prescidenre da un nuovo patto di azione con la comunità nel suo complesso, riconoscendo ad essa di essere, non l’unico, ma il principale stakeholders da integrare nella ideazione e gestione delle politiche di welfare, se vogliamo che contribuisca anche alla sua sostenibilità

Infatti ho paura che un accordo tra i grandi filantropi e i governi non aggiungano un granchè circa la natura, gli obiettivi e la modalità di realizzazione del welfare. E non garantisce quello che per noi italiani è una visione “di diritto” e universalistica  dei servizi per il benessere sociale, come sancito dalla nostra costituzione, come fa notare molto giustamente Ivan Cavicchi in questo suo articolo.

E’ un dibattito questo che richiede una visione più sociale e politica del fundrasing e meno legata ai vecchi miti del grande filantropo. Insomma – mi si passi questo tocco di orgoglio nazionale – una visione più “italiana” e meno “anglosassone” del fundraising.

@mcoencagli – @fundraisingroma


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