Cooperazione & Relazioni internazionali

La libera informazione ai tempi dei narcos

di Emanuela Borzacchiello

Quando nel 2012 le pagine “esteri” delle maggiori testate giornalistiche del mondo raccontano la cattura di Jorge Eduardo Costilla Sánchez, leader del cartello di droga del Golfo del Messico, o la morte di Heriberto Lazcano, a capo del gruppo narcos de Los Zetas, i giornali del paese in cui tutto questo stava accadendo non riportavano ne’ una traccia di notizia.

Messico, Stato di Tamaulipas, luglio 2012. La colazione accompagna la rassegna stampa: sfogliando El Mañana de Reynosa, o l’edizione locale de Milenio, sembra tutto tranquillo. Si sorseggia un caffè, mentre lo scenario dei cartelli della droga è in pieno stravolgimento e il livello di violenza della città in cui si vive supera la cosiddetta “soglia di attenzione”, entrando in uno stato di atrocità da cui difficilmente si può tornare indietro. In meno di dodici ore, il 10 luglio 2012, tre attacchi contro le sedi delle principali testate giornalistiche di Taumalipas, avevano indotto al silenzio. Identica la dinamica degli attentati: uomini armati che arrivano fino all’accesso principale delle sedi di giornali, sparando e lanciando granate. Nessuno, nei media, ne da notizia. Un silenzio forzato che si impone come la politica editoriale di uno Stato in crisi costante.

A un contesto che cambia a seconda del livello di violenza che raggiunge, corrisponde un nuovo ecosistema informativo. Se la stampa tradizionale è costantemente minacciata o  – parte di essa  – irrimediabilmente corrotta, cosa succede? Se il sistema d’informazione è in cortocircuito, la cittadinanza come si organizza?

Con un flusso d’informazione influenzato, mediato o interrotto dalle minacce, intere comunità o regioni si trasformano in buchi neri, “zone in cui le notizie non entrano e non escono. Allo stesso tempo, però, la società continua a rivendicare con forza il diritto a un’informazione libera”, sottolinea il giornalista messicano Roberto Zamarripa, dell’associazione internazionale per la libertà d’informazione Articolo 19, attiva in Messico dal 2006.

In un contesto di crisi costante, non più di emergenza circoscritta, emerge la figura del cittadino reporter. Non scrive, ma informa: condivide informazioni in tempo reale, avverte di non avvicinarsi a una determinata zona, perché sotto il fuoco incrociato di bande criminali o scontri armati con la polizia. Se una parte del paese segue il modello statunitense dell’arsenale privato, trincerandosi in casa con armi e videosorveglianza, molti altri scelgono di difendersi costruendo una cittadinanza attiva dell’informazione che salvi le parole che i media tradizionali silenziano. Se le autorità e i mezzi di comunicazione non trasmettono informazioni indispensabili alla sicurezza della popolazione, i social network – in particolare Twitter – sono lo strumento per condividere notizie nelle zone pericolose, svolgendo un ruolo centrale anche nello smorzare quel tipo d’informazione che mira a diffondere panico, creando un clima di paura costante, in cui non si esce più da casa e l’autocensura è la regola.

Una delle chiavi di volta informative sono le hashtag (#), che fanno riferimento a temi specifici, attraverso le quali gli utenti di twitter creano microblogging. #ReynosaFollow, nel 2010, è stata la prima hashtag messicana a lanciare allarmi sulle zone di pericolo, ispirando il microblogging in altre città: #VerFollow (Veracruz), #SaltilloFollow (Coahuila). Oggi una delle sfide più importanti è proteggere ile cittadinie reporter sempre più sotto minaccia, sempre più sul ciglio del silenzio forzato.

Il blog del narco

In uno Stato in crisi e un’economia controllata da un’autarchia di monopoli finanziari, gli spazi di libertà informativa prendono la forma dell’autorganizzazione e della clandestinità. La libera informazione in Messico passa prima di tutto attraverso i blog, con una molteplicità di forme e funzioni. Riescono ad essere nel contempo pagine di giornali, notiziari sempre aggiornati e, molto spesso, hanno come prolungamento della parola scritta la voce, trasmessa da radio clandestine. Se la stampa tradizionle, la polizia o addirittura alcuni settori del narcotraffico vogliono avere le ultime notizie sul narcotraffico in Messico, c’è un primo clik da fare: www.blogdelnarco.com. Un blog gestito come pagina di giornale aperta, che interagisce continuamente con i lettori, anche se in alcuni casi i lettori sono gli stessi narcotrafficanti e vogliono inviare “avvertimenti” al cartello rivale. L’anonimato di chi ha creato il blog e lo ha reso il punto di riferiemto informativo ai tempi del narcos era uno degli elementi fondanti di questo stesso ecosistema informativo. L’anonimato rimane, ma il giornale britannico The Guardian pubblica un’intervista alla cittadina reporter che sta dietro le quinte del blog. Una giorvane donna messicana, autrice dl libro Morir por la verdad: Encubiertos dentro de la violenta guerra contra las drogas en México, pubblicato in spagnolo e in inglese dalla casa editrice: Feral House. L’abbiamo raggiunta telefonicamente e lasciato che fosse lei a presentarsi:

“Chi sono io? ho 20 anni, vivo nel nord del Messico, sono una giornalista, sono una donna, single, non ho figli e amo il mio paese”.

Un corpo di donna: rompe con l’immaginario. Incrina l’idea, capovolgendo la dinamica: attraverso la parola scritta la donna analizza, denuncia e reagisce alla violenza.

“Non credo che la gente si immaginasse che una donna potesse fare una cosa simile è un duro colpo per il maschilismo messicano e per l’idea che le donne sono deboli, più delicate, che hanno sempre paura e non difendano se non la propria casa e i propri figli. No, noi agiamo politicamente sempre, a partire da come decidiamo di lavorare con le parole. L’informazione in uno stato di violenza costante è un fattore determinante per creare isole di libertà”.

Capovolge la dinamica usando altri strumenti: parola viva, visibile ed esuberante versus una violenza che ferisce, sotterra e priva di energie.

“Il mio blog si è trasformato in un punto di riferimento informativo sia per i narcotrafficanti sia per l’autorità governative. É una lettura obbligata per le autorità, i cartelli di droga e i cittadini comuni. Rende costantemente visibile giorno dopo giorno la terribile violenza censurata dai mezzi di comunicazione attuali”.

Usando altri strumenti, modifica la formula: se la politica istituzionale non è in grado di accompagnare un cambio di modello, interviene il senso di politica della cittadinanza attiva a rimodulare e decidere il cambio.

“Cambiamo casa quasi ogni mese. Ci siamo rifugiati in garage, è molto difficile. Nasondiamo tutte le nostre attrezzatura in luoghi differenti: computer, mixer, antenne e quant’altro. Se ci cercano le autorità fuggiamo. In molti mi accusano di pubblicare liberamente anche i messaggi che i cartelli dei narcos si scambiano tra loro. Messaggi in codice o meno che non sono simboli della violenza, ma segno tangibile della nostra vita. Mi spieghi la morale di un giornalista tradizionale che lascia parlare in un programma televisivo il politico di turno, che tutti sanno essere corrotto e compromesso con la criminalità organizzata? lo si lascia parlare, lanciare anatemiminacce contro gli avversari politici contribuendo ad alimentare un clima di violenza e impunità nel paese”

Noscondere gli strumenti e fuggire con i corpi. Crea una dislocazione e un cambio di struttura nella comunicazione rispetto alla quale non si potrà più ripristinare un modello tradizionale. Il problema rimane il metodo: completamente stravolto, non si ha nessun punto di riferimento per gestire il nuovo tipo di meccanismo comunicativo. Nella rete la parola diventa di tutti e assume una forza oppositiva non controllabile. Scompare la figura del referente tradizionale, un giornalista della carta stampata o un speaker di un programma televisivo. L’assenza di un interlocutore genera l’impossibilità di anestetizzare conflitti. Se non si hanno più referenti diretti e riconoscibili, su chi si esercita la censura? Se non esistono più interlocutori, contro chi o rispetto a quale testata giornalistica eo programma televisivoradiofonico si dirigono strategie repressive, come la chiusura di una rubrica di opinione o la cancellazione di un talk-show politico?

Il contesto e i dati

Non è un paese in guerra, il prodotto interno lordo cresce ogni anno di circa tre punti percentuali, il tasso di analfabetismo è fra i più bassi del continente latinoamericano.

Non è un paese in guerra il Messico, ma si muore quasi quanto in un paese in guerra. “Dal 2012 la violenza è esplosa, facendo schizzare la percentuale di violenza contro giornalisti al livello più alto degli ultimi dodici anni. Solo nel 2012 si è verificato un incremento del 20,34% rispetto al 2011”, il giornalista messicano Roberto Zamarripa presenta così l’ultimo report sulla violenza contro la stampa elaborato dall’associazione Articolo 19, “207 aggressioni, quelle ufficialmente denunciate, poi ci sono i dati che non è possibile pubblicare perché non pervenuti. Accade sempre più spesso che dopo la sparizione o la morte di una giornalista, le famiglie decidano di non denunciare. Paura, depressione, senso di sconfitta: il mix perfetto che immobilizza”. Per garantire la libertà d’informazione, è più facile morire solo in Sira, Somalia, Iraq e Afghanistan.

Un campo di battaglia atipico, con al centro una miriade di contraddizioni: alla militarizzazione crescente non corrisponde nessuna diminuzione degli indici di violenza che, anzi, “diventa capillare e assume caratteristiche specifiche in ognuno dei 32 Stati della Repubblica Federale del Messico. Nel nord-est si uccide di più, in media nove morti ogni anno, mentre nel sud le sparizioni sono più frequenti. Si diffondono fenomeni come i trasferimenti forzati e il silenzio forzato. Esiste una costante che accomuna i dati di questi ultimi anni: l’alta percentuale di casi in cui funzionari pubblici sono implicati come responsabili di aggressioni alla stampa”, afferma Dario Ramirez di Articolo 19. “ Abbiamo raccolto e pubblicato prove che testimoniano la responsabilità delle autorità dello Stato. Il 43.96% degli attacchi alla libertà di espressione è perpetrato da funzionari dello Stato, quasi tre volte in più di quelli attribuiti alla criminalità organizzata. Abusi di potere attraverso minacce, violenze fisiche e detenzioni arbitrarie”.

 

 


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