Cooperazione & Relazioni internazionali

Femminicidio e Narcos: il sistema messicano

di Emanuela Borzacchiello

Prima di iniziare: Non sarebbe stato possibile scrivere questo reportage senza la preziosa testimonianza di Marisela Ortiz. Fondatrice della prima ong al mondo che si è occupata di difendere le donne vittime di femminicidio, Marisela è stata costretta a lasciare il suo paese e rifugiarsi negli Stati Uniti, dove da un anno ha ottenuto lo status di rifugiata politica.

Marisela insegnava da più di 20 anni nella stessa scuola, abitava da più di 30 nello stesso quartiere, ed era nata in quella stessa città. Solo che quella città si chiama Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Stati Uniti. Marisela una mattina va a scuola, viene minacciata di morte insieme a tutta la sua famiglia ed è costretta a fuggire migliaia di km più al nord. “Dalla fine degli anni ’90, quando abbiamo fondato con altre donne la prima ong al mondo in difesa delle vittime di femminicidio, la condizione di pericolo in cui abbiamo vissuto è stata costante. In più, negli ultimi cinque anni il livello di violenza è triplicato in modo drammatico”. È passato più di un anno da quando è stata minacciata. Oggi vive come rifugiata politica negli Stati Uniti, isolata dalla sua famiglia e nell’anonimato per motivi di sicurezza.

Durante gli anni della presidenza statunidense di George W. Bush e messicana di Felipe Calderón (2006-2011), era stato lanciato il Plan México: un programma di 400 milioni di dollari da investire nella lotta contro il narcotraffico. La maggior parte dei fondi fu destinata a contrattare militari Usa e pagare forze armate messicane. Complice l’intrecciarsi di diversi fattori, da allora l’indice di violenza è aumentato del 200 per cento – dati pubblicati da Amnesty International e confermati dalle relazioni della ONU.

La storia cambia dal 2002, a partire dalla decisione delle attiviste che lottano contro il femminicidio di accusare lo Stato Messicano di essere responsabile dell’impunità delle morti di Ciudad de Juarez.

La storia, che passerà agli albori dei tribunali internazionali come Campo Algodonero, creando un precedente fondamentale nella difesa dei diritti delle donne, inizia nel 2001 quando vengono ritrovati otto corpi di donne e bambine in avanzato stato di decomposizione. Non erano state uccise nello stesso posto, solo vi erano state trascinate. Quella parte di campo aveva un forte significato simbolico, vicino com’era alla sede principale de la Asociación de maquiladoras de Ciudad de Juarez, il sindacato delle lavoratrici. La ong di Marisela analizza caso per caso e con un equipe di avvocate. La Corte Interamericana non accetta tutti gli otto casi presentati, solo i tre per i quali l’identificazione era stata inconfutabilmente accertata. Le famiglie delle vittime chiedono alla Corte che sia riconosciuta la responsabilità internazionale dello Stato messicano per la violazione dei diritti alla vita, all’integrità personale e alle garanzie giuridiche durante le indagini. Chiedono, inoltre, la destituzione dei funzionari che hanno impedito o omesso il regolare svolgimento delle indagini. Uno dei passaggi chiave è la richiesta del riconoscimento della responsabilità dello Stato per l’assenza di misure di protezione e prevenzione, per la negligenza nel condurre le indagini e per la mancata riparazione del danno subito dai familiari delle vittime. Nel 2009 la Corte emette la sentenza a favore delle vittime del Campo Algodonero. Vittoria su tutta la linea. La sentenza ha importanti ripercussioni internazionali, per la prima volta si afferma sul piano giuridico il termine femminicidio e sono riconoscite responsabilità e previsti obblighi dello Stato rispetto all’integrità fisica e psichica delle donne.

LA PROSSIMA SETTIMANA LA SECONDA PARTE DEL REPORTAGE CON:

Il ruolo dell’esercito e della polizia nei traffici di droga

Scomparire in México


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