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Futuro, dove? Tra sogno e realtà

di Serena Carta

Il ruolo dello studioso è quello di ricercare e osservare cause e conseguenze di un certo fenomeno; egli approfondisce, al di là delle mode e dei luoghi comuni, fa domande e raccoglie risposte confrontando esperienze; i risultati ottenuti, poi, prova a tradurli in leggi, convenzioni, regole, interpretazioni. Il dibattito sull’emigrazione dei giovani italiani si sta facendo sempre più fitto; per questo, a mio parere, il contributo accademico può essere utile per osservare il fenomeno con oggettività e capirne tutte le sue sfumature. A Torino il centro di ricerca sulle migrazioni Fieri si sta interrogando sulla mobilità giovanile italiana come sintomo del mondo contemporaneo: l’obiettivo è comprenderne le dinamiche presenti per immaginare quale grado di dinamicità avranno le società di domani. Nel contesto della crisi attuale, come progettano il futuro le generazioni che si affacciano al mercato del lavoro? Dove si vedono tra dieci anni? E qual è la loro percezione dell’Italia? Sono queste alcune delle domande a cui la ricerca Futuro, dove? vuole provare a dare una risposta. Viviana Premazzi, ricercatrice presso Fieri e dottoranda in sociologia presso l’Università degli Studi di Milano, ci accompagna alla scoperta del progetto.

S: Viviana, Fieri si occupa da sempre di immigrazione verso l’Italia. Come mai avete deciso di iniziare questa ricerca sugli italiani che emigrano? V: Sì, eccezion fatta per qualche studio sulla partecipazione politica degli italiani all’estero, il focus di Fieri è sempre stato quello degli stranieri che arrivano e vivono nel nostro paese. Lo scorso anno, un po’ per tutto quello che dicono i media un po’ con l’idea di indagare gli effetti della crisi, abbiamo deciso di iniziare una nuova ricerca che abbiamo intitolato Futuro, dove? per riflettere sulla nuova ondata di emigrazione da parte dei giovani italiani. Un fenomeno considerato in tutta la sua novità, che comprende i trasferimenti permanenti verso l’estero così come gli spostamenti temporanei per studio e lavoro. Per avere più chiaro il contesto di indagine, metteremo a confronto le esperienze dei giovani di origine italiana e di origine straniera per vedere in che termini il background migratorio del singolo giovane o della sua famiglia influisce sui piani per il proprio futuro. In altre parole, quello che ci chiediamo è: avere dei genitori che hanno già migrato o essersi mossi in prima persona favorisce la mobilità oppure il radicamento? A volte, infatti, in seguito alle difficoltà nel conquistarsi un posto nella nuova società, si è meno disposti a lasciare la propria città…

S: Come è organizzata la ricerca e chi sono gli intervistati? V: Abbiamo predisposto due strumenti: un questionario online, aperto a tutti i giovani dai 18 ai 30 anni, e delle interviste qualitative a Torino e dintorni indirizzate a ragazzi e ragazze alla fine del liceo e alla fine della triennale. Consideriamo infatti questo periodo – tra i 18 e i 23 anni circa – come l’età della scelta, il momento della propria vita in cui il futuro è considerato non tanto nella sua concretezza ma nella sua idealizzazione: esso viene soprattutto immaginato, sognato. Quello che ci piacerebbe capire è quanto l’idea del proprio futuro è influenzata dai media, dal clima che si respira, dalla predisposizione personale.

S: Quali risultati sono emersi dalle prime interviste? V: Fino ad ora è emersa una propensione alla mobilità temporanea – grazie anche alla comodità dei mezzi di comunicazione e ai social media che aiutano a sentirsi connessi ovunque ci si trovi – con il piano di ritornare a vivere in Italia nel lungo periodo. Si prende in considerazione l’esperienza all’estero per acquisire più consapevolezza e per avere un profilo più spendibile sul mercato del lavoro, ma si prospetta poi sempre un ritorno alle origini. Abbiamo notato anche differenze di genere. Alla domanda “dove ti vedi tra dieci anni?” sono più le ragazze che i ragazzi a vedersi sposati con figli: mentre il futuro professionale è incerto, per loro quello familiare sembrerebbe più chiaro. Alcuni, poi, mostrano frustrazione e sfiducia nei confronti dell’Italia: chi ha la fortuna di aver conosciuto un altro paese, o chi ha un background migratorio, si lamenta di una mancanza di energie, mentre descrive gli altri paesi come dinamici e pieni di possibilità. Altri – coloro per cui l’inserimento nella città in cui vivono attualmente è stato difficile e complesso – vogliono invece rimanere in Italia, al motto di “se se ne vanno tutti, poi chi rimane?”. Bisogna però capire se questa affermazione è un modo per giustificare la scelta di restare oppure se c’è davvero un reale desiderio di fare qualcosa per il paese. Insomma, alla fine della triennale sembra ci sia ancora poco senso della realtà da parte di chi progetta il proprio futuro. A parole si avverte il senso di precarietà e si intuisce che lo scenario è cambiato rispetto a quello dei propri genitori, eppure si ha la certezza che a 32 anni si avranno un lavoro, una famiglia e due figli. Il rischio è quello di scontrarsi con un futuro che – nonostante fosse stato annunciato da più parti – non era stato messo in conto per se stessi. Per questo sta emergendo chiara l’esigenza di lavorare sul senso di realtà, di insegnare che la crisi può essere un’opportunità ma che per affrontarla sono necessarie nuove visioni della vita e nuove competenze.

S: Quali sono le maggiori differenze tra i giovani di origine italiana e quelli di origine straniera? V: Non abbiamo rilevato grosse differenze. Di solito, laddove l’integrazione è stata più difficile, anche il radicamento è più solido. Se invece non ci sono stati grandi difficoltà, sembrerebbe che la predisposizione alla mobilità sia più forte. Un elemento da sottolineare è che i giovani di origine straniera sono molto legati all’idea di affermarsi professionalmente, per questo si iscrivono in massa a facoltà come medicina o ingegneria. Ecco, anche in questo caso è necessario lavorare sul senso della realtà: non è realistico che tutti possano diventare dottori o ingegneri. Bisognerebbe concentrarsi di più sull’orientamento nelle scuole, per fare emergere le potenzialità degli studenti. I giovani di origine straniera, ad esempio, rappresentano una ricchezza per l’Italia in termini di internazionalizzazione del paese: puntare su di loro per creare ponti commerciali e culturali con i paesi da cui provengono sarebbe un grande investimento per tutti.

S: Cosa sta facendo l’Italia per le giovani generazioni? V: Poco, purtroppo. Manca uno sguardo al futuro, come dimostra l’esempio che ho appena fatto. Nelle università per esempio sono tanti i progetti che incentivano la mobilità, ma non sono finalizzati. Il risultato è che chi va all’estero per un breve periodo si convince che se trova un lavoro ci resta. Se tornasse in Italia avrebbe più contenuti, ma le conoscenze sarebbero meno spendibili e meno concrete.

S: E cosa succede invece nel panorama europeo? V: Gli effetti della crisi nell’Europa del sud stanno influendo sulla mobilità intra-europea. Paesi come la Spagna, l’Italia e la Grecia che per tanti anni sono stati terra di immigrazione oggi sono diventati paesi di emigrazione verso l’Europa del nord. E’ un argomento di cui non si discute ancora abbastanza. E’ un dato di fatto che l’Unione europea favorisce la mobilità: ma oggi paesi come la Germania e l’Inghilterra stanno accogliendo tantissimi giovani. Qual è l’impatto sociale ed economico di questi spostamenti? Quali politiche vengono messe in atto per l’integrazione dei nuovi cittadini? Come reagiscono i sistemi di welfare? Sono tutte questioni che meritano una risposta.

S: Ai giovani tra i 18 e i 30 anni che leggono Vita, perché chiedi di compilare la survey online? V: Perché credo molto nella funzione politica e sociale della ricerca, che considero uno dei modi in cui una persona può dire la sua su un problema. Il tema che affrontiamo nella nostra indagine è molto discusso nei media tradizionali e ancor di più sui social, ma di fatto non si riflette così nello specifico. Si è creato il mito del giovane all’estero, ma è da sfatare: andarsene senza un progetto richiede un certo tipo di investimento economico (che non è alla portata di chiunque), senza contare che trasferirsi non coincide sempre con la realizzazione di se stessi. In Italia si presentano sempre più spesso i casi di quelli che ce l’hanno fatta; ma quando non ce la fai, cosa sei, un fallito? Dobbiamo iniziare ad ammettere che non c’è niente di male a dire che non si vuole lasciare l’Italia. Bisogna parlarne di più ed è questo che la nostra ricerca punta a fare.

Foto: Carolina Lucchesini


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