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Giovane a chi?

di Serena Carta

«Interessante il tuo blog, però c’è qualcosa che non mi quadra. Chi sono questi giovani di cui parli? Secondo me bisogna fare chiarezza quando si usa questa parola, abusata e sulla bocca di tutti. Guarda per esempio i media, che attribuiscono a “i giovani” ogni sorta di meriti, colpe e sventure – rappresentandoli talvolta come degli sfigati, talatra come dei talenti; per non parlare dei politici, che millantano iniziative a loro nome. Dovrebbero chiamarli cittadini e smetterla con questa farsa, tutto qui». Così ha commentato una volta un amico. Chi sono dunque i giovani italiani? Chi rientra in questa categoria? Quando è giusto chiamarli in causa? L’ho chiesto a Cristina Pasqualini, che di lavoro fa la sociologa e i giovani li “studia” dal 2000. Le ricerche di Cristina sono state pubblicate di recente nel Rapporto Giovani, una lente d’ingrandimento a 360 gradi sulla condizione giovanile in Italia.

«La giovinezza è una fascia d’età aperta – mi ha spiegato – Dal punto di vista sociologico, demografico e statistico, fino a una decina di anni fa consideravamo “giovane” chi aveva un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Oggi il limite si è spostato ai 34 anni. All’interno di questo gruppo abbiamo individuato tre diverse categorie: ci sono i “giovani” che hanno dai 18 ai 24 anni, i “giovani adulti” dai 25 ai 29 e infine gli “adulti giovani” che anagraficamente dovrebbero essere adulti ma che all’interno della società vivono ancora una condizione di giovinezza».

Quello che fa la differenza tra l’essere giovani e l’essere adulti sono i cosiddetti “marcatori di passaggio“: terminare gli studi, trovare un lavoro, uscire dalla famiglia, costruirsi una famiglia propria e fare dei figli. Così prosegue Cristina: «L’Italia presenta un modello a sé, ovvero una transizione all’età adulta molto rallentata rispetto ad altri paesi. In Svezia, per esempio, i ragazzi escono di casa a 19 anni e sono da subito indipendenti. In Italia, invece, si conquista la propria indipendenza più tardi per due motivi: uno culturale, tipico nostrano – laddove la famiglia tende a lasciare andare con fatica i figli – e l’altro politico/economico». In una situazione di crisi economica mancano infatti all’appello politiche per l’autonomia, come l’istituzione di affitti agevolati, o per l’ingresso nel mondo del lavoro. Invece di concentrarsi su queste, la politica italiana ha preferito divertirsi a «sparare sui giovani»: bamboccioni, ragazzi che non vogliono crescere, generazione perduta, choosy. Tutte etichette in negativo.

«Alla luce della situazione attuale – continua Cristina – la sfida del Rapporto Giovani è quella di condurre un’analisi seria e documentata della condizione giovanile italiana. Quanto pesano nel ritardo dell’ingresso nell’età adulta le variabili culturali, economiche e strutturali? Personalmente, penso che non sia colpa dei giovani se non riescono a emanciparsi, ma di un sistema che non gli dà le possibilità di farlo».

Quali sono allora le caratteristiche di chi, in Italia, ha tra i 18 e i 34 anni? «Ci sono differenze significative tra i cosiddetti “millennials” o “generazione mobile”, cioè coloro che hanno raggiunto i 18 anni nel nuovo millennio, e i 30enni, la “generazione bloccata” e la più bersagliata in questi anni. I millennials sembrano più preparati dei loro fratelli maggiori: sono laureati e spesso posseggono master, hanno fatto esperienze all’estero, dimostrano un certo protagonismo e hanno voglia di metterci la faccia e di partecipare (sebbene mostrino diffidenza verso i partiti e cerchino nuove forme di coesione). Tutte peculiarità che non si riscontrano nella generazione precedente: una generazione che definiamo invisibile, la cui partecipazione politica è venuta meno, sopraffatta dall’individualismo e dalla tendenza a risolvere i problemi collettivi in maniera individuale. I ragazzi più giovani sembrano invece aver compreso che ci sono difficoltà condivise e comuni e che per risolverle bisogna fare rete e cooperare. I 34enni inoltre si sentono traditi: per anni hanno aspettato il loro turno, che non è mai arrivato. Per loro oggi è difficile reinventarsi o fare scelte di cambiamento radicale; al contrario, i 20enni hanno nel Dna concetti come flessibilità e mobilità».

I più giovani della società italiana, quindi, hanno interiorizzato il viaggio, lo scambio e l’esperienza all’estero per studio e per lavoro. Sempre di più i confini europei e non saranno varcati dall’entusiasmo di giovani cittadini che renderebbero orgogliosi i padri dell’Ue. Ma su questo Cristina non nasconde la sua preoccupazione: «Si formano, fanno esperienze, vanno all’estero: ma quando tornano, cosa trovano? Le politiche per i giovani nel nostro Paese sono veramente scarse, soprattutto in certi territori si fa ancora molto poco. Se ci sarà un ritorno, sarà problematico. Stiamo parlando di una generazione molto preparata: sarà disposta a rimanere in attesa, come hanno fatto i fratelli più grandi?».

In questo panorama, la famiglia ha un ruolo determinante:«I millennials sono figli di un’istituzione, quella familiare, che negli ultimi anni ha rappresentato l’ammortizzatore sociale più grande d’Italia. La famiglia li ha protetti, rendendoli poco consapevoli dei rischi e dei problemi del mondo esterno. Ma le nuove povertà nate dalla crisi economica la stanno indebolendo: se viene meno il supporto dei genitori, che non saranno più in grado di tenere i figli in casa fino ai 34 anni, cosa succederà ai giovani? Come faranno a inserirsi nel mondo del lavoro e a diventare autonomi in assenza di misure statali che vanno in questa direzione?».

Cristina e il team di ricercatori del Rapporto Giovani ritengono perciò fondamentale instaurare un dialogo costante con le istituzioni politiche: «Un esempio concreto di come si debba e si possa lavorare in sinergia è quello del Mi Generation Camp (ndr: un forum di tre giorni organizzato e promosso dal Comune di Milano per discutere pubblicamente di politiche giovanili). A partire dai dati delle nostre indagini, i politici hanno ragionato con noi ricercatori su quelle che possono essere le politiche per l’autonomia dei giovani nella città di Milano. Se non si collabora, le ricerche accademiche rimangono carta morta e se la classe dirigente non ha le competenze per riconoscere e analizzare i fenomeni della nostra epoca, sarà sempre più difficile trovare soluzioni adeguate».

Relativamente ai movimenti nati per il “ritorno dei cervelli”, infine, Cristina lancia un appello: «Attenzione, queste iniziative sono belle opportunità di fare rete ma non possono essere lasciate a se stesse, anche in questo caso è fondamentale creare contatto con le istituzioni. Come facciamo a dire “tornate tornate tornate” se poi non c’è un’attenzione istituzionale verso il ritorno? Abbiamo bisogno di politiche che lo rendano possibile. Ascoltiamo questi movimenti!».

Photo credit: “Generation who refuse to grow. No-mortgage. No-marriage. No-children. No-career plan” (www.dailymail.co.uk)


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