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This is the place to be

di Serena Carta

Di persone come Filippo Dal Fiore, farebbe bene incontrarne una al giorno. Un po’ come le mele, anche lui è terapeutico. Ci siamo conosciuti a dicembre a Napoli, al MeeTalents, che lui descrive come «un primo passo compiuto da 40 persone riunite nella Terra dei fuochi». È un ottimista, Filippo, è paziente e vede il bello laddove è più difficile scorgerlo. Nei piccoli passi, per esempio, «in quelli che si fanno indietro, per poi farne un altro avanti, anche se spesso la tentazione è un’altra». 

Filippo un passo indietro lo ha fatto quando ha deciso di rientrare in Italia dopo 7 anni di vagabondaggio tra Boston, l’Austria, Amsterdam e Milano, luoghi in cui ha vissuto con la scusa di un Phd nel mondo delle nuove tecnologie. «Quando iniziai a lavorare in Italia come ricercatore, realizzai che nei posti che avevo visto non si faceva ricerca come l’avevo immaginata io: si faceva tanto studio, tanto ‘maneggiamento’ di testi. Da qui l’esigenza di apprendere il mestiere in maniera più profonda e di andare a fare un dottorato all’estero». Sensazione in cui, lo sappiamo, in tanti si riconoscono.

Gli Stati Uniti lo hanno esaltato per la loro energia e la capacità di creare conoscenza. Ad Amsterdam ha fondato una start up con il suo supervisor, per portare nel mercato alcune invenzioni tecnologiche concepite oltre oceano «che all’epoca ancora nessuno faceva».

Nel frattempo si è sposato e ha provato a vivere a Boston con la sua nuova famiglia. È stato allora che ha deciso di tornare in Italia, a Padova: «Mi mancava la dimensione più umana dell’Italia, il clima stesso del Nord era diventato un problema. In fondo potevo lavorare sui miei progetti da un qualsiasi pc in qualunque parte del mondo. E poi negli ultimi anni mi ero stancato di questa vita in giro, in cui tutto è molto competitivo e funzionale. A Boston per esempio è quasi impossibile avere una vita dopo il lavoro. Volevo tornare dove avevo le mie radici, volevo rivedere i luoghi a cui ero affezionato».

Tornato a Padova, una dopo l’altra però le collaborazioni si sono concluse: «All’inizio sono rimasto spiazzato. Ma poco per volta, guidato da un senso di autoimprenditorialità che mi ha sempre caratterizzato, mi sono impegnato per spostare la mia carriera professionale verso quello che intuivo potesse darmi più soddisfazione». È stato grazie alla sua capacità di fare networking che sono arrivate delle opportunità ed è riuscito a costruirsi una professione su misura. Ha fatto di errore virtù, imparando dagli insuccessi: «Sono passato attraverso anni economicamente buoni e meno buoni, ma ero preparato e non ho mai perso tempo».

Oggi Filippo è un libero professionista e consulente, si occupa di interdisciplinarità (questo il suo sito) e si fa guidare da una visione olistica della vita: «Non credo alle iper specializzazioni – dalle esperienze che ho avuto ho imparato che al giorno d’oggi, se ti chiudi in una bolla, poi credi di essere dio e fai disastri – piuttosto, credo molto nel mettersi in connessione. E noi italiani in questo siamo bravissimi. This is the place to be».

Parole che, dette da uno che fino a pochi anni prima lavorava all’MIT, non lasciano indifferenti. Eppure non sono in tanti a pensarla come lui: «In Italia c’è un dramma in corso dovuto alla negatività che si respira nei media: si è diffusa la convinzione che vada tutto storto, che fuori ci sia l’oro e qui il fango. Il vizio di piangerci addosso sta giocando molto a nostro sfavore. Inoltre c’è la globalizzazione che sta portando tutti i talenti, non solo italiani, verso i grandi centri: Boston, Londra, Berlino. È qui che si sta concentrando la classe imprenditoriale e creativa, così come la ricerca. Il risultato è un impoverimento del capitale umano al di fuori di questi centri, la perdita della fiducia e, di conseguenza, il desiderio diffuso di andarsene».

L’errore, secondo Filippo, sta nell’aver adottato una visione a senso unico della storia: «Si ha la tendenza a prendere e andare nei posti in cui crediamo di poter essere i migliori del mondo, vedendoci sempre come gli ultimi dei primi. Così si diventa ciechi di fronte alle risorse incredibili che abbiamo qui, capitale che parte dalla terra, dalle radici, dall’imprenditoria locale. Non esiste solo il modello monolitico americano: in Italia c’è un’alternativa che cresce ogni giorno, tante piccole esperienze d’eccellenza che non trovano spazio sui giornali. Non siamo l’America: è inutile che ci illudiamo di poter fare quello che fa l’MTI, lo faranno sempre e comunque meglio loro ed è giusto che sia così! E se loro sono più portati a fare scienza e tecnologia, noi siamo portati a fare dell’altro. Bisognerebbe iniziare a raccontare il nostro Paese da un diverso punto di vista».

Questo aiuterebbe anche a far tornare i cosiddetti “talenti” che, come Filippo, si sono resi conto che non è tutto oro quello che luccica: «Tutte quelle persone orientate non solo al lavoro, ma anche alla famiglia, alle relazioni sociali, all’impegno nella propria comunità hanno ragione a voler rientrare in Italia. Però bisogna fargli sentire che non sono sole e, soprattutto, che non stanno per compiere un suicidio. Io, per esempio, quando sono tornato ho avuto molte difficoltà a far capire la mia scelta: era come se non potessi confermarne la bontà perché non ero riuscito a intercettarne altre. E poi, sembrava che fosse solo una questione di soldi… Sarebbe quindi importante creare un network tra chi ha deciso di rientrare in Italia dopo anni trascorsi all’estero: non per fare le prediche né per dirsi quanto si è stati bravi, ma per confrontarsi, sentirsi un po’ meno degli estranei e ragionare insieme su come mettere al servizio del Paese quello che si è imparato fuori».

Filippo ne è certo: l’Italia è quasi tutta in mano ai senior, mentre è impellente l’ingresso delle generazioni nuove, composte anche da chi è stato fuori. «I giovani innesti arriveranno, io sono fiducioso e ottimista, è solo questione di tempo. Certo, oggi con la monocultura che c’è è difficile aspettarsi un cambiamento clamoroso nel breve termine. Ma nel lungo periodo sì. E noi che siamo qua e che ci crediamo, intanto, dobbiamo essere germi attivi nel nostro piccolissimo».

Photo credit: Sanctuary photography → back ! maybe :p via photopin cc


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