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L'importanza di esserci

Ha il camice bianco, ma il volontario ospedaliero è come te: è «un amico in più»

Alla vigilia del congresso nazionale di Rimini, l'Associazione volontari ospedalieri si interroga sul proprio ruolo in una società che cambia, dove la solitudine si aggiunge alla povertà e dove esserci per l'altro è sempre più inconsueto

di Nicla Panciera

«Sono stata operata di tumore al seno alla Mangiagalli nel 2009 e, da allora, eseguo regolarmente i controlli. Molto dipende dal problema di ciascuno, ma capita di restare a lungo seduti in attesa di un referto o di parlare con il medico e la preoccupazione sale moltissimo. Il volontario ospedaliero è una figura fondamentale, le cui parole di conforto possono fare la differenza. Io stessa ho cercato di rassicurare una signora molto agitata che era lì da sola, seduta, aspettando un esame istologico» ci racconta Marta, sessantenne milanese, che aggiunge: «Spesso i pazienti sono frastornati per la folla, la paura per la propria salute non fa che aumentare lo spaesamento».

I volontari svolgono ruoli anche molto pratici, ma percepiti come ugualmente accudenti, come ci racconta Cinzia, forte donna sessantenne, la cui voce si intenerisce quando ripensa alla sua mamma: «Aveva qualche difficoltà a deambulare e per spostarsi usava il bastone. Ogni tre mesi, la accompagnavo a controllo al Policlinico per una malattia ematologica. Ogni volta, all’entrata c’era un volontario che ci avvicinava e l’accompagnava in uno posto a sedere. Molti altri anziani arrivavano da soli: per loro, una sedia, un bicchier d’acqua, una parola, aiuti di questo tipo sono essenziali».

Per Francesco Colombo, presidente dell’Associazione volontari ospedalieri FederAvo, il suo primo contatto con i volontari ospedalieri è un ricordo vivido come fosse oggi. «Era il 2008, ero ricoverato al Policlinico per forti dolori all’addome in attesa di una diagnosi, per arrivare alla quale mi erano state fatte delle domande sulla mia familiarità con il tumore al pancreas. Un dialogo che mi aveva lasciato pieno di angoscia. Ricordo il sollievo che provai parlano con una volontaria, che mi aveva avvicinato. Un momento di decompressione indimenticabile».

Francesco Colombo

Avo, nata a Milano nel 1978, oggi è presente in tutta Italia, con 221 sedi e circa 16.000 volontari. Dal 20 al 22 aprile, a Rimini, si terrà il XXIII convegno nazionale “Noi siamo Avo: tra vecchie e nuove fragilità” in cui si tratteranno molti temi legati alle cure palliative e al ruolo del volontario in contesti delicati. I lavori congressuali saranno tutti trasmessi in diretta sul Canale YouTube di Federavo e la sua pagina Facebook. «Parleremo di nuove fragilità, di quella immensa solitudine che spesso si somma alla povertà economica, e ne amplifica gli effetti, e che non colpisce più solo nei contesti urbani del Nord Italia»

«Noi volontari conosciamo in prima persona questa doppia fragilità, economica e sociale, entriamo in contatto con i più svantaggiati, come gli anziani soli che non godono del conforto neppure dei vicini di casa, dai quali spesso anzi devono guardarsi» racconta Colombo. «Queste nuove fragilità erano già delineate nei documenti fondativi dell’associazione Avo di mezzo secolo fa, in cui si parla di volontariato per il nucleo famigliare-amicale e di post-ricovero».

L’orientamento dei volontari

Come accaduto a Colombo, sono in molti ad avvicinarsi ad Avo dopo un’esperienza personale. Il volontario segue un corso formativo, viene selezionato sulla base della motivazione e poi orientato sulla base delle sue personali capacità. «Puntiamo sulle capacità di osservazione, empatia e ascolto, lavorando sempre prima di tutto sulle attitudini di ciascuno, che è anche il modo migliore per coinvolgerlo e consentirgli di dare il meglio di sé» spiega Colombo, che ha molta esperienza alle spalle, dalla neurologia del Policlinico e al Besta, alla Rsa e alla riabilitazione oncologica del Trivulzio. Non tutti i volontari vanno nei reparti più delicati e critici, perché molte sono le cose da fare per stare vicini alle persone, ai loro amici e parenti, spesso disorientati e spaventati. Tutti possono aiutare. I volontari di Avo operano in corsia, negli ospedali, nelle residenze per anziani. Ciascuno di loro ha un ruolo specifico. «Spesso aiutiamo parenti e amici, fornendo loro informazioni pratiche e suggerimenti, ma anche un momento di condivisione e magari di distrazione durante l’attesa».

«Un amico in più»

È esperienza comune, nessuno escluso: sappiamo tutti quanto sia importante esserci per gli altri. Anche senza tante parole, ascoltando in silenzio, a seconda dei bisogni e desideri dell’altro. Il volontario conosce i tempi, l’ascolto, il silenzio. «C’è il volontariato del fare e quello dell’esserci. Noi ci siamo e siamo pronti e disponibili al dialogo, in ogni sua espressione, anche quella silenziosa» chiarisce Colombo. «Può accadere, soprattutto con i più anziani, che ci venga chiesto di parlare e raccontare di noi, perché per loro rappresentiamo il mondo esterno. Siamo formati proprio per entrare in relazione con l’altro e attivare un meccanismo di reciprocità perché, a differenza di tutte le altre figure che interagiscono con il malato nei vari setting ospedaliero e residenziale, noi siamo suoi pari», pur indossando il camice. Questa relazione alla pari è tanto preziosa quanto apprezzata: «I malati ripetono spesso che con il volontario ospedaliero si sentono a proprio agio e si sentono più liberi di esprimere dubbi e paure, più ancora che con gli psicologi ad esempio. Un volontario è un amico in più, ci dicono».

Nel team di cura

Al contempo, è anche un operatore che si integra con tutto lo staff medico sanitario, non solo negli aspetti relazionali ma inserendosi nel team: «Grazie al contatto quotidiano con i pazienti, il volontario può intercettare alcuni segnali di varia natura, anche di tipo culturale, utili al clinico tanto che, in alcune strutture, iniziano a essere invitati nella riunione di team quotidiana». Questo accade ad esempio all’Irccs Neurologico Besta di Milano, dove «il volontario è parte del team di cura».

Solitudine: pandemia silenziosa che ammala

«L’incremento della popolazione anziana, accompagnata spesso da solitudine, indica la necessità, prima ancora della cura, della prevenzione e della promozione della salute. Prevenire le patologie, promuovere la salute, combattere la solitudine sono elementi cruciali per evitare la cronicizzazione di patologie invalidanti: a ciò l’Avo può contribuire» afferma Corrado Medori, psicologo e già consigliere Federavo. «Sappiamo che la mission dell’Avo si riassume nello slogan: Accoglienza, Presenza, Ascolto, Accompagnamento. Quello che l’Avo può e deve fare, nella realtà odierna, è ampliare l’orizzonte del proprio intervento: dalla corsia ospedaliera all’ambulatorio, alle altre strutture territoriali, alle Case della salute, al domicilio della persona».

Perché essere volontari ospedalieri

Essere volontari arricchisce e regala grandi soddisfazioni. «Alcune sfide sono cambiate negli anni, ma altre rimangono immutate» riflette Colombo. «Siamo un universo molto eterogeneo, anagraficamente e professionalmente, ma uniti dai valori comuni e dalle forti esperienze che viviamo e che portano alla creazione di solide amicizie intergenerazionali. Se con la pandemia il nostro gruppo si è un po’ ridotto e alcuni territori faticano a trovare nuove forze, i più giovani sono molto motivati e consapevoli e alcune sedi regalano grandi sorprese: proprio Bergamo, così martoriata dal Covid, e dove la selezione dei volontari prevede non uno ma due passaggi, l’anno scorso il corso di formazione è stato seguito da ben 50 persone».

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Foto di FederAvo


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