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Cooperazione & Relazioni internazionali

Giovane India, vecchi i politici

di Marco De Ponte

I movimenti di donne indiane sono in questi ultimi giorni tornati in piazza;  nonostante infatti il nuovo pacchetto siglato dal Presidente e approvato dal Gabinetto introduca delle  riforme in merito alla violenza contro le donne, allargando anche lo spettro dei reati e introducendo pene più severe (per esempio contro voyerismo, stalking e aggressioni con acido), sono state tralasciate molte delle raccomandazioni  raccolte dalla Commissione Verma (guidata dall’ex giudice della Corte Suprema) che aveva incontrato la società civile, toccato gli umori, raccolto suggerimenti e proposte sulle riforme da adottare.

Quello che donne e attiviste- anche di ActionAid – hanno chiesto in questi mesi di manifestazioni di piazza, non era certo l’introduzione della pena di morte, che è la risposta peggiore di un paese che troppe volte ha risposto con la violenza alla violenza. Sarà punito con la pena capitale chi commette violenza sulle donne, provocandone la morte o il coma prolungato, mentre al contrario la società civile chiedeva profondi cambiamenti nel sistema giudiziario e delle forze di polizia, e soprattutto il riconoscimento dello stupro compiuto dal coniuge come reato, che è poi la violenza di cui è vittima l’80% delle donne indiane. La società civile indiana chiedeva e chiede ancora una riforma a tutto campo, che parta prima di tutto dalla prevenzione di qualsiasi forma di violenza, con la consapevolezza che non si tratta di un affare privato ma di un affare che interessa lo Stato e quindi anche la prevenzione deve essere presa in carico dalle autorità.

“Young India, old politicians”, viene da dire, riprendendo un commento di Gurcharan Das, lo scrittore e opinionista indiano, che meglio a mio avviso negli ultimi anni ha saputo descrivere le contraddizioni di questo paese. Un commento che mi era tornato in mente quando i colleghi di ActionAid mi hanno raccontato dei fiumi di donne, (e uomini) – tra cui molte giovanissime – scese in piazza, per le strade, prima a New Delhi, poi in altre città, venute anche dai villaggi dopo ore e ore di bus. La voce delle donne dell’India, per dire no alla violenza. Una “primavera indiana” che ha invaso il paese, dopo lo stupro di una ragazza di 23 anni lo scorso 6 dicembre a New Delhi, morta poi in un ospedale di Singapore. Una risposta eccezionale a un evento che eccezionale non è, per usare le parole di Arundhati Roy.

In quell’occasione, mentre alcuni politici della Coalizione impiegavano oltre una settimana a prendere parola su quanto avvenuto, dimostrando di non saper ascoltare una spinta di cittadinanza attiva che veniva dal basso, le donne e le attiviste indiane hanno dato una lezione di vita e di democrazia agli uomini e ai politici. “Nirbhaya” hanno gridato migliaia di donne indiane. “Una senza paura”. Perché tutte possano non avere più paura, degli uomini, ma anche dell’apatia di un sistema.

E oggi – mentre la condanna a morte di chi ha commesso lo stupro dello scorso 6 dicembre appare scontata – dalle donne e dalle attiviste di ActionAid è arrivato un monito chiaro e forte: gli stupratori non devono essere condannati a morte. Oltre ad essere una grave violazione dei diritti umani, la pena di morte eletta a mezzo compensativo nei confronti della famiglia della vittima, rafforza soltanto l’idea che la verginità e la castità di una donna siano proprietà della sua famiglia o comunità di appartenenza.  “E’ lo stesso sentire comune che giustifica il delitto d’onore che – nell’Haryana, non lontano da Delhi – è la risposta riservata alle donne che scelgono di sposare un uomo diverso da quello imposto dalla famiglia”, fa notare la Sehjo Singh, direttrice dei programmi di ActionAid India. Come se in entrambi i casi i diritti delle donne, le loro scelte e desideri, semplicemente non contassero.

In India il punto da risolvere è come dar voce alle donne, sia a quelle che hanno nome riconosciuto dai media, sia a quelle – molte di più – che non lo hanno, sia nei contesti urbani che rurali: il contrasto alla violenza sulle donne non può e non deve essere un fatto privato, ma essere presa in carico dalle istituzioni, senza però cadere nella “vendetta di stato”. L’importante è ora che il dibattito  rimanga vivo e che si superi la reazione anche, essa stessa, violenta, prodotta dall’indignazione popolare; che si passi dalla semplice messa in stato d’accusa della società patriarcale (ma anche delle istituzioni che la riflettono) e dall’attivazione dei movimenti di base, ad azioni concrete; che si passi ad una pressione politica per assicurare leggi che proteggano le donne e processi partecipativi. Un’altra occasione di mobilitazione sarà la One Billion Rising Campaign , il movimento globale che – il prossimo 14 febbraio – farà ballare e mobilitare oltre un miliardo di donne (e uomini) in 189 Paesi e a cui anche ActionAid ha aderito.

In India, l’unico modo per mettere fine all’uso indiscriminato di qualsiasi forma di violenza ed all’esercizio di un controllo degli uomini sulle donne, passa per il riequilibrio delle relazioni di potere reale che donne ed uomini hanno nella società.  Che è poi lo stesso messaggio che ActionAid sta portando all’attenzione dei politici italiani perché anche in Italia si mettano in atto interventi per contrastare la violenza sulle donne e per sradicare gli stereotipi di genere riconosciuti dall’ONU come causa culturale delle disuguaglianze di genere nel nostro paese.


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