Solidarietà & Volontariato

Pannella ha smesso il digiuno e io sono tornata dentro

di Elisabetta Ponzone

Pannella ha sospeso il digiuno e io sono ritornata in carcere. E’ ormai un anno che vado nella Casa di reclusione di Milano-Opera, l’istituto penitenziario di massima sicurezza alle porte di Milano, dove seguo il progetto Borseggi. Una collezione di borse di stoffa realizzate con persone detenute nel carcere più grande d’Europa. Soli maschi. Uomini dentro. Dove Totò Riina sta scontando diversi ergastoli.

Tutto era partito da San Vittore, con le donne sartine della cooperativa Alice, poi, grazie a un progetto promosso dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia è stato aperto un laboratorio di sartoria anche qui. Morale, con i miei soci della cooperativa sociale Opera in Fiore, Federica e Alessandro, stiamo facendo borse, belle, da vendere. Premetto: non vi parlerò di come sia difficile vivere in carcere e neppure di tutte le cose che non vanno. Ma della scintilla di uno stupore e della voglia di lavorare. Del darsi da fare.

Borseggi mi frullava nella testa da tempo e così mi sono chiesta “perché no?” Nonostante la crisi , borseggi poteva diventare il mio firewall. Con tutta onestà non  lo faccio certo perché mi ritengo particolarmente buona, anzi, mi stanno pure un po’ sulle palle  tutti quei filantropi umanitaristici radical chic. Piuttosto perché credo che tutti e tutto hanno un valore, basta solo avere un po’ di pazienza e andarlo a scovare. L’ho imparato lavorando con Avsi nel mondo, stando di fronte a donne con l’Aids e non per questo valutate per la loro malattia, bensì come risorsa per la comunità. Ma l’ho visto in opera anche con il giovane amico Mario della cooperativa che, nonostante i suoi problemi psichiatrici, il suo talento per il giardinaggio è vero e genuino.

Non disponendo di un capitale, abbiamo iniziato comperando una cosa per volta. Le prime stoffe le ho rubate dall’armadio della nonna, altre le abbiamo comperate a rate. Aghi, fili, spolette, forbici, bottoni, spillini tutti comperati. Macchina da cucire rubata alla figlia di Fede. Doveva essere un regalo: «Intanto può fare altro» . Il laboratorio dove avviare la sartoria nel carcere, battagliando, è venuto fuori. Sette metri per quattro o giù di lì, diviso con la liuteria. Sì perché qui a Milano Opera facciamo anche i violini. Ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta.

Borseggi poteva avere inizio. Il sarto è uno vero, di quelli doc. Lo ha fatto per anni e ai tempi in cui, chi aveva stoffa, era capace di fare di tutto. Tagliare, cucire, sagomare, stirare. Con il ferro il Tropi riesce a fare meraviglie. Tropi è un detenuto sarto, arrivato in carcere ventisette anni fa e che ci rimarrà per tanti altri. Non fa il simpatico. È tignoso. Anziano. Un rompiballe. E vuole strafare. Non è amato né dai giudici né dagli avvocati. Tropi percepisce una pensione ed è socio volontario della nostra cooperativa. «Voglio fare! Per il momento non mi servono i soldi. Ora cerchiamo di non perderci troppo». Lui ha già fatto i conti. Abbiamo fatto bomboniere per un matrimonio di un avvocato. Finito quelle per un battesimo e stiamo mettendo insieme la nuova collezione.  Ora stiamo cercando di far partire anche un servizio di sartoria per piccole riparazioni. Orli, cambio cerniere, toppe, stringi e allarga. Cose semplici, ma utili, che nessuno vuole fare più. Tropi alza gli occhiali sulla fronte, agita la mano destra in un imperdibile gesto interrogativo squisitamente italiano: “Due euro per orlo, mettici filo, ago, l’uso della macchina. La benzina, vai, compera e ritorna. Il tempo. E la mail per avere il permesso per portar dentro quello che serve. Ma chi te lo fa fare?” Certo che in carcere, la sartoria è l’ultimo dei problemi. Però forse aiuta. “Devi essere paziente” mi dice il Tropi.” E si riabbassa gli occhiali per imbastire.

Questo laboratorio sta diventando un luogo strano. Si lavora e si scherza. E si fanno progetti. “Il carcere, in questo modo, si pone come luogo di riflessione, capace di offrire possibilità di recupero e di crescita.” Afferma Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Milano Opera. Qui ora Tropi, che era un po’ un fannullone, arriva presto e se ne va tardi. L’altro giorno era seduto alla macchina da cucire con cuffiette della musica sulle orecchie e cappellino, grembiule stirato e a ritmo di soul cuciva come un trattore. Le prime volte, quando me ne andavo, non mi degnava di uno sguardo. “Ciao Tropi, me ne vado” gli dicevo, e lui a malapena sussurrava un arrivederci. Senza mai guardarmi negli occhi. Un giorno mi sono stancata. “Perché quando me ne vado tu non mi saluti? “Tu vieni, stai, parli e poi te ne vai. E io rimango qui, dentro queste mura”. “E’ normale. Io vado e tu resti. Siamo in un carcere e sei tu il detenuto.  – Gli dico guardandolo dritto negli occhi.  – E comunque io ritorno.”  Da allora mi saluta da amico. A modo nostro, forse,  lo stiamo diventando davvero. Quando deve finire un lavoro, non puoi parlargli. È teso. Sembra una zitella. Quando non ci sono mi prende in giro facendomi il verso. L’ho saputo dagli altri.

Oggi mi ha chiesto com’è andata la fiera, la mostra mercato di Natale a cui abbiamo partecipato con borseggi, violini e non solo. Bene, niente di che, ma bene. Siamo riusciti a pagarci lo stand e abbiamo fatto un bonifico per i lavoratori. “Ma cosa dicevano delle borse? Che ci sia la crisi e che la gente non voglia spendere troppo è un conto, ma le borse che facciamo, piacciono o no?” Certo che sì, Tropi. “Bene, allora significa che stiamo facendo un bel prodotto. Andiamo avanti.”

Mi hanno chiesto “perchè lo fai”? Ho risposto perché no? Fare delle borse in un laboratorio fuori dal carcere è così meno strano che farle dentro? Oppure è il fare qualcosa con quelli dentro che fa strano? Oltrepassare quelle mura non fa strano. Fa strano se hai paura fuori e stai meglio dentro. Fa strano se fai lo stronzo dentro e il bravo fuori. Fa strano se credi che quelle mura siano lo spartiacque tra buoni e cattivi. Certo, in carcere ci finisci quasi sempre per qualcosa. I reati per i quali è stato condannato il Tropi li ho letti dalla fotocopia del magistrato di custodia. Occupano una pagina e mezza nonostante sia stato sintetico. Uscirà e sarà diverso? Solo lui potrà deciderlo. Nonostante la legge, solo lui, alla fine sarà il vero e unico giudice di se stesso. Recidivo o si giocherà il talento? “Se avessi usato la testa come la usi per fare le borse non saresti qui Tropi.” “Eh, la fai semplice tu…” e riattacca a cucire. Oggi mi ha stupito. Mentre decidevamo cosa fare di nuovo, mi sono fatta prendere un po’ dall’ansia. L’idea della sartoria è bella, ma fatica a decollare. C’è sempre un problema. Per ogni borsa che si vende, sono più le spese che altro. In pochi ci credono. A volte mi sento in dovere di giustificarmi perché faccio questo e non qualcosa di più serio. “Ma che problema c’è?” Mi ha detto secco “Quando guadagneremo, dobbiamo investire in una nuova macchina da cucire e altro. Questo ferro da stiro che mi hai dato sembra quello delle bambole! Io ci metto il mio talento. Taglio e cucio. Tu e i tuoi soci il tempo, i soldi e la faccia. Siamo lavorando. E Abbiamo un progetto, insieme. E ora lasciami un po’ in pace perché devo pensare al pranzo di Natale!”


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