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Attivismo civico & Terzo settore

Scontro di inciviltà

di Sergio Segio

Aveva ragione Oriana Fallaci o, viceversa, i suoi ultimi libri hanno alimentato la spirale dell’odio? Le manifestazioni a Dresda di Pegida, vale a dire dei “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente” e il crescere di nazionalismi e destre estreme in Europa sono una conseguenza o una concausa dell’affermarsi dei radicalismi islamici? Il Front National, la Lega Nord e le Case Pound sono soluzioni accettabili o parte del problema? Le provocazioni dei Borghezio o le t-shirt dei Calderoli sono servite a sensibilizzare sul pericolo o hanno cinicamente e strumentalmente buttato benzina sul fuoco? La figura dell’oltranzista islamofobo Anders Breivik va ora rivisitata oppure la strage, ancora più ampia, di cui è stato responsabile in Norvegia è una manifestazione speculare, oltre che precedente, di quanto accaduto a Parigi e altrove? Le associazioni antirazziste e il volontariato accogliente sono illusi buonisti e utili idioti oppure il vero baluardo e il più robusto antidoto ai fondamentalisti della jihad? E infine: nasce prima la guerra o il terrorismo?

In un momento in cui si fanno indiscutibili le certezze, come spesso avviene quando l’emotività supplisce all’analisi e alla ragione, conviene abbondare nei dubbi e con le domande. E poi occorre, come sempre bisognerebbe fare, guardare il più possibile ai fatti – e anche alla Storia – e metterli al centro della scena e del ragionamento.

Si dice che gli attentatori siano reduci dalla perdurante guerra in Siria; da tempo i servizi di sicurezza occidentali indicano il pericolo costituito dai miliziani di ritorno, venuti alla ribalta con i video delle decapitazioni a opera dei seguaci del Califfato. Secondo la stampa, su un totale di 12.000 foreign fighters provenienti da nord Africa e paesi occidentali, sarebbero almeno 700 quelli con passaporto francese andati a combattere con lo Stato Islamico in Siria. Anche se tali cifre appaiono forse esagerate e comunque ovviamente non comprovabili (più credibile e definito il numero di quelli arrivati dall’Italia, fornito dal nostro ministero dell’Interno: 53), l’allarme ha sicuramente fondate ragioni e si basa su elementi concreti.

Occorre peraltro ricordare che molti dei gruppi ribelli anti Assad, che poi hanno dato vita all’Isis, erano stati inizialmente sostenuti da governi occidentali nonché armati dalla CIA statunitense. Più o meno lo stesso era successo ai tempi della prima guerra in Afghanistan, con Bin Laden e la nascita di Al Qaeda.

Tuttavia, degli attentatori di Parigi colpisce la confidenza con la morte, più che la professionalità militare, forse acquisita in campi di addestramento ovvero nei tanti teatri di guerra in corso, ma comunque dubbia.

«Gli assassini gli sono addosso di corsa, uno copre dal centro della strada, l’altro gli dà il colpo di grazia, con una naturalezza meccanica, come in un’esercitazione ripetuta cento volte, come in un videogioco», scrive Adriano Sofri su “la Repubblica”.

La produzione di morte somiglia ormai a un video game, per i terroristi di Parigi così come per i piloti dei droni, che ne distribuiscono a piene mani, per giunta a distanza, con ancora minore coinvolgimento emotivo e con nessun rischio fisico. Ma quest’oscena rappresentazione viene percepita come virtuale il più delle volte anche dagli spettatori, che facciano il tifo per gli uni o per gli altri.

Tutti noi siamo frequentemente bombardati da immagini di guerre e devastazioni. Quasi tutti noi siamo protetti dal filtro emotivo dello schermo televisivo o del monitor. Per una quota non piccola di popolazione mondiale quel contatto è invece diretto e quotidiano. Generazioni di palestinesi vi hanno preso familiarità dalle finestre di casa o dalle tende dei campi profughi dove sono cresciuti; lo storico vulnus di terra e di diritti che colpisce quel popolo continua, infatti, a essere il padre e la madre della destabilizzazione a livello mondiale. Intere aree del Medio Oriente e dell’Africa hanno un’incolpevole abitudine all’orrore e alle mattanze umane, resa atavica dalle guerre coloniali prima e, poi, dalle tante forme, solo in apparenza meno sanguinose, che quella stessa rapace pratica di spogliamento e di rapina – di materie prime come di culture – ha assunto nel nuovo secolo.

Si può e si deve inorridire, ma non ci si può stupire se quella confidenza si traduce a volte – per fortuna poche rispetto a quel che sarebbe pensabile e possibile – nell’odio sconfinato e nel mortifero desiderio di rivalsa e di affermazione che arma le mani dei nipoti delle vittime di quei colonialismi o comunque di persone che si convincono di essere giustizieri, prima che assassini.

Per la comune sensibilità occidentale le immagini della strage di Parigi suscitano immedesimazione. Je suis Charlie, come nel secolo scorso ci si diceva berlinesi. Eppure, anche allora, non tutti gli europei si sentirono vicini a Berlino Ovest, sulla scia di John Fitzgerald Kennedy. Con la capitale tedesca divisa in due e nel mondo bipolare la sensibilità, la politica e la cultura si spaccarono come una mela, tra chi stava con gli Stati Uniti e chi parteggiava per l’altro impero, quello sovietico, e per l’altro schieramento, quello del Patto di Varsavia.

Altri tempi e altre guerre fredde, ma di cui bisognerebbe ricordarsi allorché le attuali geostrategie occidentali, attraverso l’allargamento a Est della NATO e le guerre per il petrolio, con sullo sfondo il confronto finale con la Cina, destabilizzano di nuovo pericolosamente il quadro, rinfocolando anche sentimenti nazionali e volontà di potenza della Russia.

Sono anche questi gli occhiali di lettura di quanto successo a Parigi, mentre nell’immediato e giustamente dichiariamo indignazione per i giornalisti uccisi.

Ci sentiamo vicini e possiamo riconoscerci nelle vittime, non negli aggressori. Ma, al di là dei fatti di Parigi, le cose non sono mai così semplici come le emozioni ci spingono spesso a credere. Spesso anche gli aggressori si percepiscono come vittime e non sempre le vittime sono del tutto innocenti; non fosse che, di sovente, per la loro indifferenza al dolore degli altri. E allora, come a Berlino, rischia di diventare prima di tutto una scelta di campo. Ma, in questo modo, si partecipa alla logica del “noi” e “loro” – e contemporaneamente si condanna l’altro a essere effettivamente e irrimediabilmente tale.

In questo caso gli altri sono appunto quei figli e nipoti accecati dall’odio per le ingiustizie di ieri o per le umiliazioni di oggi, oltre che dalle invasature religiose. Fino a che l’occidente continuerà a non riconoscere la loro cultura e umanità e a soffocare le loro eventuali ragioni storiche, come avviene da decenni per la Palestina, contribuirà a rinfocolare il loro odio. Fino a che le grandi potenze continueranno a fomentare squilibri mondiali e soluzioni belliche – com’è stato in Somalia, nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, in Ucraina –, quasi sempre per nascosti interessi geopolitici e per inconfessabili avidità economiche, nessuno avrà il diritto di dire, per davvero, Je suis Charlie. Sinché fingeremo di non accorgersi che quello in atto è uno scontro di inciviltà, tra gli Stati predoni e quelli aspiranti tali, avremo contribuito a moltiplicare le mani assassine e a irrigare l’odio.

Se è vero che il terrorismo polarizza, per effetto o per strategia, da questo scontro è possibile e doveroso chiamarsi fuori, provando invece a costruire ponti tra popoli, religioni e culture, sfuggendo a ogni arruolamento coatto tra seguaci della Fallaci o della Le Pen, di Al Qaeda o dell’Isis. Le loro indignazioni non possono essere le stesse nostre.


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