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Attivismo civico & Terzo settore

Dei delitti, delle antipatie e delle pene

di Sergio Segio

Viviamo in un paese dove la reticenza e la dimenticanza sono la regola, una delle poche che unisce ceti sociali e orientamenti politici diversi. L’unica memoria – lunga e accanitamente inossidabile, oltre che falsata – a essere promossa e coltivata è quella relativa agli anni Settanta del secolo scorso e, in particolare, di quell’insieme di vicende impropriamente riassunte nella definizione “anni di piombo”. Una memoria a senso unico dalla quale non è consentito derogare o dissentire, proponendo e argomentando chiavi di lettura o ricostruzioni diverse e alternative a quelle dominanti, come nel caso di Paolo Persichetti, ex detenuto politico per le vicende delle Brigate Rosse, ora perquisito e perseguito in ragione delle sue posizioni, ricerche e pubblicazioni storiche.

Quanto quella regola sia cogente e intramontabile ce lo confermano, da ultimo, tre vicende relative allo stato della giustizia e alla amministrazione delle pene in Italia, solo apparentemente slegate.

  1. Lo sciopero della fame in corso da parte del detenuto Cesare Battisti.
  2. Il referendum sulla giustizia co-promosso da Partito Radicale e Lega.
  3. L’archiviazione dell’inchiesta sulla strage di detenuti avvenuta a Modena durante e dopo i disordini dell’8 e 9 marzo 2020.

L’isolamento e l’antipatia come supplementi di pena

Il detenuto politico Cesare Battisti è in sciopero della fame per protestare contro l’isolamento di fatto in cui è tenuto da 27 mesi, «dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta», scrive. La sezione di alta sicurezza (AS2) di Rossano Calabro, dove si trova dopo l’iniziale periodo trascorso nel carcere sardo di Oristano, «è una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “Antro Isis” è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme».

Lo sciopero e le sparute notizie sulla stampa hanno provocato qualche reazione e anche indotto qualche rara manifestazione di solidarietà. A loro modo assai eloquenti, dato che vi è stato persino chi, pur promuovendo appelli e iniziative, ha tenuto a premettere di avere Battisti in somma antipatia. Aspetto, peraltro, richiamato di frequente allorché si parli o si scriva dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo. Lo ha fatto, ad esempio, anche Michele Serra scrivendone su “la Repubblica”, sia pur entro un ragionamento e un giudizio critico – a seguire quello più netto e precedente di Mattia Feltri – riguardo le condizioni di carcerazione cui viene costretto l’anziano militante, a dispetto dei regolamenti e di ogni logica che non sia quella simbolica e vendicativa. Un altro giornalista, Vittorio Pezzuto, di area liberale e radicale, per denunciare quella che definisce «una vendetta che il nostro ordinamento giudiziario non prevede» e per chiedere che «s’interrompa il livore contro l’assassino» non trova incoerente e fomentante esattamente quel livore aprire il suo articolo con questo incipit: «Cesare Battisti è un uomo vigliacco, tra i più detestabili».

Beninteso, ogni individuale simpatia o antipatia verso chiunque da parte di chiunque è prerogativa soggettiva indiscutibile, non fosse che, nello specifico, rivela una incapacità di comprensione dell’evidenza: vale a dire che quello pazientemente e sapientemente montato lungo almeno un decennio contro Battisti dagli apparati politico-giudiziari-mediatici italiani è un caso da manuale di costruzione bipartisan del mostro, di character assassination, pensato come tappa finale di una resa dei conti con il pugno di scampati alle ondate repressive degli anni Ottanta. A quella costruzione hanno, con zelo ed efficacia, partecipato persino eminenti figure intellettuali ed editorialisti di prima pagina normalmente di ben altro livello, come Antonio Tabucchi, Claudio Magris o Alberto Asor Rosa, che si sono esercitati nell’arte troppo facile dell’insulto, naturalmente condito da dotti riferimenti, e di una animosità, se non maramalda, resa più incomprensibile dal tempo trascorso dai fatti.

«Le Brigate Rosse – questi pezzenti della politica», inveiva Magris in prima pagina del Corriere della Sera, probabilmente senza sospettare che da quei brigatisti poteva essere inteso come complimento, poiché essere pezzenti tra pezzenti, stare al capo opposto delle élites, era storicamente un irrinunciabile carattere programmatico, quando non biografico, in tutte le rivoluzioni proletarie, anche in quelle immaginarie o sedicenti.

Asor Rosa arrivava ad attaccare il “suo” quotidiano, “il manifesto”, accusandolo di aver ospitato (addirittura dare parola ai mostri!) un’intervista a Battisti, usando questi raffinati toni: «L’intervista conferma, ma anche ribadisce e aggrava, quel che già sapevamo, e cioè che Battisti è un miserabile, uno che per salvarsi di fronte a un pubblico ignaro è disposto a versare fiumi di fango su di noi e sulla nostra storia, un mentitore e un vigliacco». E ancora: «Passiamo il nostro tempo da quindici anni a questa parte a sostenere l’azione della magistratura contro i mascalzoni, i ladri, i depravati sessuali che oggi sono al potere nel nostro paese, e dobbiamo leggere proprio sul manifesto e assistere inerti alle accuse infamanti che questo mentecatto-delinquente riversa su di essa?».

Oggi forse questi linguaggi e queste esibizioni di hate speech non colpiscono più, abituati come purtroppo siamo diventati a frequentare i social media, ridotti a discarica verbale di bullismi contrapposti e narcisismi aggressivi, affollata palestra di disinformazione e di cattivi sentimenti. Ma è attraverso questi percorsi e processi, istruiti dall’alto, che la cultura della forca e della gogna diventa – è divenuta – la trama condivisa del sentimento e del discorso pubblico.

Il potere dei simboli e il delitto politico

Non è dunque questione della personalità di Battisti, dei Battisti, ma delle sue obiettive responsabilità, per quanto a lungo negate, in questo caso non diverse da quelle di migliaia e migliaia di altri militanti dell’epoca, a loro volta in connessione con decine di migliaia di loro, di nostri, sodali.

Il delitto è delitto, va bene, e il suo sortire da motivazioni politiche viene ormai comunemente considerata un’aggravante, perlomeno in Italia e in contrasto con la storia, ancor di più con quella patria della prima metà del Novecento. Ma aggravato o meno che sia, non può essere privato delle sue chiavi di lettura, vale a dire dei contesti, se lo si vuole non giustificare ma comprendere. Se lo si fa, e lo è fatto con determinazione, è stato solo per rendere plausibile la doppia operazione: mostrificare gli uni per assolvere gli altri, ovvero sé stessi, lo Stato delle stragi, i suoi registi e i suoi manovali.

Quell’operazione ha come corollario finale la vendetta, la quale ha bisogno di simboli negativi per rendersi più accettabile socialmente e anzi per raccogliere e capitalizzare politicamente ampio consenso. O per dare l’esempio a futura memoria, come nel caso del brigatista Mario Moretti, tuttora incarcerato dopo più di quarant’anni, a eterno monito, in una paradossale nemesi storica per chi pretendeva di educarne cento colpendone uno.

Come ha ben annotato ne La Stampa Mattia Feltri: «invocare un trattamento giusto e dignitoso per un uomo detestato da tutti immagino sia un pochino velleitario, perché si sa, la Costituzione comprende diritti da garantire a chiunque, ma noi preferiamo garantirli a chi ci sta simpatico». O a chi sta o proviene dalla nostra stessa parte: criterio, anzi sentimento, che ha funzionato solo per i militanti delle destre armate e/o stragiste ma non per quelli del campo opposto, rinnegati quali “sedicenti rossi” dalle sinistre istituzionali e abbandonati da quelle extraparlamentari, a propria volta stigmatizzate o addirittura criminalizzate, comunque intimorite e a loro volta storicamente sconfitte e politicamente emarginate.

Quella della costruzione del simbolo negativo, del mostro, peraltro, è storia vecchia, cominciata con Pietro Valpreda e piazza Fontana per divenire una delle tecniche principali, affinata scientificamente e lungamente collaudata negli anni della “madre di tutte le emergenze”, quella contro la lotta armata di sinistra di quasi mezzo secolo fa, in seguito riprodotta e stabilizzata nei decenni successivi per fenomeni diversi, a cominciare dalla corruzione e dalle mafie. Quella lunga stagione politica e giudiziaria è considerata una “eccellenza italiana”, divenuta modello per altri paesi, sempre e tuttora rivendicata dai suoi protagonisti. Naturalmente, avendone negate e occultate alcune parti poco presentabili ma invece fondanti, quali quella della tortura sugli arrestati.

Alle radici dello scontro tra politica e magistratura

Da lì, da quella emergenza, originano i disequilibri istituzionali, le deleghe in bianco alla magistratura, le successive devastanti lotte di potere, la superfetazione di leggi e apparati di eccezione, il rapporto malato tra procure e media, il sostanzialismo giuridico, la trasformazione dell’imputato in nemico e dell’azione giudiziaria in lotta, l’uso abnorme dei reati associativi e la sapiente distillazione delle intercettazioni, il prolungamento all’infinito della carcerazione preventiva come arma di pressione e ricatto, l’invenzione del “concorso morale” e della “partecipazione esterna”, la costruzione e gestione del “pentito” quale architrave del processo, eccetera.

Insomma, di tutti quei problemi che affliggono e avvelenano tuttora il sistema giustizia e che riverberano su quello penitenziario, su parte dei quali si propone ora di intervenire il referendum per il quale Lega e Partito Radicale stanno raccogliendo le firme. Che però evita accuratamente di risalire alle origini e alle cause della patologia degenerativa onde poterle riformare effettivamente nei modi giusti e nella misura dovuta, senza la quale anche questo passaggio rischia di diventare questione di schieramenti, di appartenenze, di tifoserie contrapposte, di lobby e di logge, ovvero di tutele di interessi particolari e di quel garantismo a senso unico e a uso delle classi dominanti nel quale le forze di centrodestra si esercitano con successo dagli anni Novanta del secolo scorso, avendo avuto la capacità di convincerne spesso anche quelle di centrosinistra.

I sei quesiti referendari ora avanzati riguardano aspetti in gran parte relativi all’organizzazione giudiziaria: elezione del CSM, responsabilità diretta dei magistrati, meccanismo per la relativa valutazione professionale, separazione delle carriere, limiti al ricorso alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino. Neppure uno è dedicato «al nucleo duro della giustizia: i delitti e le pene», da cui deriva la bulimia penale e l’ipertrofia penitenziaria, come ha ben osservato Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara. Che ne ha anche messo in evidenza la spiegazione: «Riproporre il referendum sull’ergastolo (come i Radicali fecero nel 1981 e, mancando le firme necessarie, nel 2013), o formulare quesiti mirati su due leggi massimamente carcerogene (la Bossi-Fini in tema di immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti) non è un’opzione praticabile, se scegli di promuovere i referendum con Matteo Salvini». La Fini-Giovanardi, in verità, è stata pur tardivamente cassata dalla Corte costituzionale nel 2014, ma, nel complesso, è l’originaria Iervolino-Vassalli che andrebbe radicalmente riformata, essendo da quarant’anni responsabile della gran parte degli ingressi annuali nelle celle e del loro sovraffollamento.

Matteo Salvini è, in effetti, quello stesso leader politico che da ministro dell’Interno, congiuntamente con il collega alla Giustizia Alfonso Bonafede, partecipò a una sorta di spot pubblicitario del partito della gogna, prontamente diffuso a reti e social unificati, nel quale entrambi comparivano trionfanti in favore di telecamere all’arrivo in aeroporto dell’ex latitante, catturato (alcuni sostengono sarebbe più appropriato definirlo un sequestro) in Bolivia per essere estradato in Italia. Persino “la Repubblica” lo definì un «filmino inquietante».

Vite leggere come piume: l’eccidio di Modena

A sua volta, Bonafede è quello stesso Guardasigilli pentastellato che (non) informò i parlamentari sulla strage senza precedenti avvenuta nelle carceri l’8 e 9 marzo 2020, con 13 morti, disse, dovute perlopiù a overdose da farmaci: poche parole e scarni dettagli, neppure i nomi delle vittime, ma certezza, ancorché apodittica, sulle cause dei decessi espresse in Aula del Senato l’11 marzo, in un intervento dalle facoltà divinatorie.

In effetti, un anno dopo, la procura di Modena – città dove si sono verificati 9 dei 13 decessi, chi in cella, chi subito dopo il trasferimento – ha chiesto l’archiviazione della vicenda: secondo i PM, non vi sarebbero responsabilità, se non quelle dei reclusi che si sono rivoltati, nove dei quali, perlopiù e sostanzialmente, si sarebbero suicidati imbottendosi di metadone e medicine sottratti dall’infermeria. Esattamente come annunciavano già dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, il ministro e il coro mediatico. Ricostruzione ora, infine e definitivamente, convalidata dal Giudice che, con ordinanza del 16 giugno 2021, ha accolto la richiesta della procura e in tre scarne paginette archiviato la morte di Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah. Nomi stranieri per vite senza peso e per morti da dimenticare.

A nulla sono serviti gli appelli, le controinchieste, le testimonianze di detenuti che parlano di pestaggi e di mancato soccorso, i tanti dubbi e le evidenti incongruenze di cui si è alla fine accorta anche qualche testata nazionale, come “Domani” e “la Repubblica”, o trasmissioni RAI come “Report” (documenti, ricostruzioni, interpellanze, testimonianze e appelli sono pubblicate nelle Newsletter del Comitato per la verità e giustizia sulle morti in carcere sorto all’indomani della strage e tuttora attivo).

Se la vita di 13 detenuti vale così poco, figuriamoci quella ora in gioco di uno solo, per giunta così antipatico come Cesare Battisti, che dalla cella di Rossano Calabro ha annunciato di essere dal 2 giugno in sciopero della fame, per chiedere la fine di un ingiustificato e illegittimo isolamento e di voler «comprendere le ragioni che mi spingono a lottare fino all’ultima conseguenza in nome del diritto alla dignità per ogni persona detenuta, di tutti».

Il potere indistruttibile di carceri e leggi speciali

Su questa vicenda, sperando si concluda non drammaticamente e secondo giustizia, vi è da fare un’ultima considerazione.

Nel pur marginale e relativo scandalo, ultra-minoritario e da microbolla, per le condizioni di detenzione di Cesare Battisti non ha trovato il minimo spazio lo scandalo più grande che dovrebbe contenerlo: quello per le piccole Guantanamo italiane, come se i diritti umani, il rispetto dell’ordinamento penitenziario e il garantismo non dovessero valere per imputati e condannati per il terrorismo islamico e per chiunque, quali che siano i reati contestati.

Come nota a margine e conclusiva, va ricordato un altro pertinente rimosso: vale a dire che la Guantanamo originaria è ancora aperta e attiva. Un lager aperto nel 2002 che ha rinchiuso in condizioni intollerabili 800 uomini (per averne una vaga idea si veda il bel film The Mauritanian del regista Kevin Macdonald, basato sulla storia di uno di loro, Mohamedou Ould Slahi, che vi ha trascorso 14 anni da innocente). Tutti sono stati oggetto di “consegne straordinarie”, ossia di rapimenti, e molti sono stati torturati nei Black sites gestiti dalla CIA in tutto il mondo, spesso con la complicità degli alleati degli Stati Uniti e dei tanti paesi che hanno consentito i rapimenti, il sorvolo e le “consegne”; Italia compresa, direttamente coinvolta nel caso dell’iman Abu Omar, sequestrato a Milano e consegnato all’Egitto per esservi torturato. Vicenda su cui governi di opposto orientamento hanno apposto il sigillo omertoso del Segreto di Stato.

A distanza di vent’anni, nel lager statunitense continuano a essere tenute prigioniere ancora 40 persone, 28 addirittura senza accusa né processo. Nulla hanno potuto neppure i probabilmente sinceri propositi di chiuderlo da parte di Barack Obama, al tempo della sua presidenza degli Stati Uniti.

Come a dire che il potere materiale di quegli apparati, gli interessi che li sostengono e di cui sono beneficiari, è ancora più forte e inaccessibile di qualsiasi potere politico e legislativo che pure li ha partoriti. I suoi piccoli cloni italiani (le cui radici normative e gestionali vanno, anche qui, rintracciate nelle carceri speciali e nei “braccetti della morte” degli anni Settanta e Ottanta), nessuno, ma proprio nessuno, vuole chiuderli e neppure vederli e denunciarli.

Per l’organizzazione penitenziaria, evidentemente, così come per una parte di quella giudiziaria, non vi sono semplicemente condannati (o, peggio, imputati), la cui pena va amministrata, nel rispetto dei regolamenti e della Costituzione, ma vi sono dei nemici da trattare diversamente ed extra legem, per i quali non valgono i comuni diritti.

A ennesima riprova che i mostri facilmente sfuggono al controllo dei propri creatori, talvolta persino mordendo loro la mano e comunque vivendo poi di vita propria, di una macchinica autonomia, di un salvacondotto permanente, di poteri indiscutibili quanto disumani.

Grazie dunque a Battisti, il cui sciopero della fame indirettamente consente – consentirebbe – pur brevemente di portarli alla luce e di metterli in discussione.


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