Solidarietà & Volontariato

Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. I dieci errori di un paradigma sbagliato

di Pasquale Pugliese

Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote,

definire l’uso delle altre attraverso analisi precise,

ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare,

potrebbe preservare delle vite umane

Simone Weil

Non ricominciamo la guerra di Troia

Come insegnano i filosofi del linguaggio, noi abitiamo la lingua che parliamo, perché il linguaggio costruisce e definisce gli elementi concettuali e simbolici del mondo in cui viviamo. La narrazione dell’impegno contro la pandemia in corso come una guerra – come fanno abitualmente i media e i governi di ogni Paese coinvolto – non è dunque solo un’espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che questo racconto porta con sé, per il mondo di significati che costruisce, si configura come un vero e proprio paradigma interpretativo. Ma è il paradigma sbagliato, un errore epistemologico, per almeno dieci ragioni che provo qui ad elencare

1.semplifica ciò che è complesso

La pandemia che il pianeta stra attraversando è la dimostrazione che viviamo nel più complesso dei mondi possibili, nell’orizzonte dell’incertezza globale, in un sistema di sistemi nel quale davvero “il battito d’ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas”, secondo la celeberrima formula del meteorologo Edward Lorenz. Il paradigma della guerra, invece, è il più banale degli schemi, la semplificazione estrema, la certezza assoluta: la riduzione del fenomeno a mera dicotomia di potenza – tra noi e il nemico – che perde di vista l’interconnessione tra le persone e tra le persone e la natura, ossia l’eco-sistema e le sue interazioni. Usare la narrazione sbagliata significa dunque costruire immaginari e narrazioni fallaci, che portano fuori strada e non aiutano a identificare e costruire soluzioni efficaci e durature.

2.impersonifica in un nemico ciò che è elemento naturale

La guerra è sempre guerra contro qualcuno, necessita di un nemico contro il quale scatenare la violenza. Induce a tagliare i nodi gordiani invece che dipanare le matasse. Il linguaggio bellico “umanizza” il virus trasformandolo – da elemento naturale indifferente al genere umano, da studiare e rendere innocuo mettendo in sicurezza le persone dal contagio reciproco – in un antagonista da combattere usando qualunque mezzo, perché in guerra il fine giustifica sempre i mezzi. Fino alla militarizzazione delle città, delle relazioni, della vita civile e politica.

3.considera il nemico un alieno, quando è il sistema ad essere malato

Il nemico, per definizione, è alieno, è altro da noi, viene da fuori e ci colpisce alle spalle. E così è stato per questo virus, non a caso bollato da Donald Trump come “il virus cinese”. Ma in una logica di globalizzazione di merci e servizi, dove ogni angolo del pianeta è inter-connesso con tutti gli altri, nessun virus è alieno. Soprattutto quando tra le cause scatenanti della pandemia c’è il tremendo vulnus all’eco-sistema generato dalle deforestazioni e dagli allevamenti intensivi diffusi su tutto il pianeta e quando tra le cause che ne agevolano la diffusione globale c’è l’inquinamento ambientale, come non si stancano di ripetere i ricercatori. Nessuno può illudersi di rimanere sano in un sistema malato, per cui è necessario prendersi cura dell’ambiente anziché incolpare gli alieni.

4.favorisce il depotenziamento della procedure democratiche: la guerra è “stato di eccezione” per definizione

Il filosofo Giorgio Agamben ed altri hanno messo in guardia contro lo “stato di eccezione” permanente nel quale rischiano di precipitare le procedure democratiche investite dalla pandemia. Ebbene, quanto più l’impegno per debellare la malattia è assimilato ad una guerra, tanto più è “legittimo” sospendere i vincoli democratici per contrastare l’emergenza: la guerra è lo stato di eccezione per definizione. Di fronte allo sforzo bellico ogni scrupolo democratico è considerato cedimento, ogni critica è considerata complicità con il nemico, ogni provvedimento liberticida è dotato di “necessità e urgenza”, come insegna l’Ungheria di Viktor Orbàn. E quanto più profonde e durature saranno queste sospensioni della democrazia, tanto più rischiano di diventare ovunque permanenti.

5.legittima la limitazione delle informazioni

Come corollario del punto precedente, la stato di guerra “legittima” la limitazione delle informazioni, perché prima vittima della guerra è sempre la verità. Seppur “a fin di bene” la tentazione dei governi di proteggere i cittadini nascondendo loro notizie scomode o allarmanti è favorita dal ricorso alla logica bellica. Il diritto all’informazione e la trasparenza diventano beni secondari rispetto al bene primario di sconfiggere il nemico. “Tacete il nemico vi ascolta”, slogan diffuso dal fascismo durante la guerra, rimane valido sempre, in ogni… guerra.

6.divide le persone tra amici e traditori

Ed in una guerra vi sono sempre i disertori o, peggio, i traditori. Contro i quali non si può avere nessuna pietà. Nella guerra al virus i traditori sono gli untori, veri o immaginari, come raccontato magistralmente da Alessandro Manzoni ne La storia della colonna infame. E poiché nell’educazione bellica scovare e consegnare disertori e traditori è un dovere civico, abbiamo migliaia di cittadini pronti a segnalare alle forze dell’ordine la mamma che porta il bambino a sgranchirsi le gambe, l’anziano che fa due passi perché ha la pressione alta, il ragazzo che tira due calci al pallone di fronte a casa… Mentre – al contrario – nessuno si scandalizza che le fabbriche di armi non abbiano mai chiuso (ma quanto ne parla l’informazione? Vedi punto precedente) e la produzione bellica – quella vera – non si sia mai fermata, indifferente ai rischi di contagio.

7.crea il mito degli eroi, invece di rispondere dei tagli alla sanità

Insieme ai traditori, in ogni narrazione bellica che si rispetti ci sono sempre gli eroi. In questa guerra senza quartiere contro il virus, eroi sono i medici, gli infermieri ed il personale ospedaliero. Si moltiplicano, giustamente, i segni di riconoscenza nei confronti di chi è impegnato senza tregua a curare e salvare le persone, ma ben pochi chiedono ragione dei tremendi tagli subiti dalla sanità – 37 miliardi in meno in 10 anni, arrivando ad 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29,2 della Germania – realizzati dai diversi governi che si sono succeduti, che hanno messo in ginocchio il Sistema sanitario nazionale. Ed in croce i suoi operatori, che avrebbero fatto volentieri a meno di diventare eroi.

8.rilancia il mito della guerra come energia e mobilitazione positiva

Il continuo far ricorso al paradigma della guerra, allo sforzo bellico di chi è in “trincea” contro il virus, rimanda – consapevolmente o meno – alla ri/costruzione di un immaginario positivo della guerra come sforzo collettivo, come mobilitazione patriottica, come esaltazione della potenza militare. In un Paese nel quale il pudore della guerra, insito nel “ripudio” costituzionale, faceva che sì che veri interventi militari in giro per il pianeta fossero ossimoricamente definiti “missioni di pace”, la guerra – associata ossessivamente all’impegno di chi salva vite umane, invece di ucciderle – è tornata ad essere rivalutata come metafora di valore. Anziché di disonore

9. rilegittima le spese militari, che invece sono causa di debolezza del sistema di difesa e protezione

Come un gatto che si morde la coda, sdoganato il linguaggio bellico, anche le spese militari – cresciute di 25 miliardi di euro in Italia nello stesso periodo in cui venivano tagliati drasticamente gli investimenti alla sanità ed alla ricerca – ricevono di riflesso, nell’immaginario collettivo, ri/legittimazione e rilancio. Quando sarebbe necessaria una riconversione civile dell’industria bellica nel Paese in cui si contano 231 aziende che producono armi ed una sola che produce ventilatori artificiali. Quando sarebbe necessaria la rivalutazione della difesa civile e sociale interrompendo, per esempio, immediatamente il programma di acquisto del 90 cacciabombardieri F35, con il costo di uno dei quali si potrebbero realizzare 1350 letti in terapia intensiva. Ossia, quanto più si spende in armamenti, tanto meno si può investire in difesa e protezione. Anche dalle pandemie

10. nasconde il tema centrale: prendersi cura l’uno dell’altro, ovvero il contrario della guerra

Lo ha scritto bene anche Guido Dotti, monaco della Comuntà di Bose: “Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura.(…) La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza”. Non sono i dis/valori e le “virtù” militari da esaltare in questo impegno collettivo contro la pandemia, ma i valori e le virtù civili della solidarietà e dell’empatia. Il prendersi cura l’uno dell’altro significa, come scriveva Aldo Capitini, richiamare se stessi “ad un punto interno così profondo da sentirsi madre di quello, come fosse stato generato dal proprio intimo” appassionandosi alla sua stessa esistenza. E questo atteggiamento Capitini – attento come nessun altro alle parole – non lo chiamava “guerriero”, ma più propriamente “nonviolento”


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