Solidarietà & Volontariato

La Terra in prestito dai nostri figli. Le risposte di Alex Langer alle domande dei movimenti di oggi

di Pasquale Pugliese

Ho incontrato di persona e parlato una sola volta con Alex Langer, in un incontro pubblico svolto a Messina in occasione – se la memoria non m’inganna – delle campagna elettorale per le elezioni europee del 1989, nelle quali io votai per la prima volta per i Verdi e lui fu eletto al Parlamento europeo e successivamente alla presidenza del gruppo parlamentare del Sole che ride di Strasburgo. Ciò che ricordo con chiarezza è che – da studente di filosofia, alla ricerca di parole che dicessero l’essenza – fui colpito dal suo ragionamento e dalla sua visione che, senza fronzoli ed artifici retorici, andavano alle questioni essenziali ed all’essenza nelle questioni, connettendo locale e globale, etica e politica. Non solo l’impegno per una politica ecologica ma anche per una ecologia della politica, a servizio dell’urgenza di rendere il mondo un posto migliore e non dell’indice di gradimento nel prossimo sondaggio. Per questo, da allora – seppur non sempre condividendo fino in fondo tutte le sue prese di posizione pubbliche – non ho più perso di vista Alex Langer, fino al tragico epilogo del 3 luglio del 1995. Tuttavia solo dopo ne ho approfondito davvero il pensiero e l’impegno, che non solo anticipavano le questioni ancora essenziali per noi, qui ed ora, ma già davano – oltre venticinque anni fa – le risposte fondamentali alle domande per le quali si mobilitano oggi i giovani in ogni parte del mondo.

Conversione ecologica e impatto generazionale

Quando i ragazzi del movimento internazionale Friday for Future dicono agli adulti – in particolare ai rappresentanti istituzionali, come ha fatto Greta Thunberg anche al Senato italiano – di avere “rubato il loro futuro” hanno ragione e, probabilmente, molti di loro non sanno che Alex Langer avvisava di questo rischio tremendo i suoi contemporanei, dicendo loro che la Terra ci è data “in prestito dai nostri figli” e dunque ogni scelta politica ed economica va misurata anche attraverso ”l’impatto generazionale”. Per questo, secondo Langer, la conversione ecologica della società già allora non era rinviabile, come – molto più drammaticamente – non lo è adesso, che viviamo già sulla nostra pelle gli effetti dei mancati cambiamenti di allora. Eccone un brano del 1989 (Perdersi per trovarsi: la Terra in prestito dai nostri figli):

“Ogni nuova automobile acquistata ed immessa sulle strade, aumenta notevolmente l’effetto dell’inquinamento. Ogni bomboletta spray minaccia l’ozono. Ogni aumento degli armamenti – o dei rifiuti, o della cementificazione, o della rumorosità o della proliferazione di prodotti chimici di sintesi non più biodegradabili… – porta non solo l’umanità ed il pianeta più vicino alla soglia dell’irreversibilità del degrado, ma provoca anche effetti sinergici che si potenziano a vicenda in un gigantesco intreccio di cause e di concause che portano al disastro. (…) Ecco perché si può parlare di “impatto generazionale” delle nostre scelte, azioni, omissioni. (…) Riappare quindi tutto intero il nocciolo del problema di una società che non voglia vivere nel nome del “dopo di noi il diluvio”: (ri)scoprire in positivo i valori dell’autolimitazione del proprio “impatto” (ambientale, sociale, culturale, estetico… generazionale), (ri)convincersi che lasciare tracce dà maggior soddisfazione che produrre voragini e che con la lentezza si può vivere meglio che con la velocità. Non solo, quindi, “in nome dei figli”, ma anche per interesse ed amore proprio. Ricongiungere le ragioni “altruiste” con ragioni più “egoiste” e verificabili anche nel presente è oggi un compito ed una opportunità della sfida ecologista: “perdersi” (rinunciando per esempio alla motorizzazione privata di massa, alla salute ed all’igiene meccanizzata, ai diversi sogni di onnipotenza energetica o bio-tecnologica o militare…) può significare davvero ritrovarsi, già nel presente, oltre che lasciare qualche possibilità in più a chi ci seguirà e vorrà pure lasciare le proprie… (speriamo) tracce, senza restare sepolto dalle nostre voragini. “Perdersi” e “trovarsi” non può funzionare in due tempi lontani tra loro e la voce delle future generazioni non è delegabile a nessuna rappresentanza “superiore” o esterna al presente. Sarà uno dei più difficili problemi politici da risolvere, quello di come immettere momenti di (auto-)limitazione all’impatto generazionale delle scelte che oggi si compiono nel breve volgere delle legislature (…). Per arrivare a questo compito di vera e grande riforma dovrà, per intanto, almeno diffondersi la coscienza che questa sia una urgente necessità ed una nuova ed impellente priorità”.

Sconfiggere i razzismi con la consapevole arte della convivenza

Il movimento Black lives matter – ultimo tra i molti movimenti che tra il XX e il XXI hanno combattuto il razzismo in gran parte del mondo, cercando di costruire società fondate sull’uguaglianza dei diritti umani – esprimendo una domanda di giustizia, mette in evidenza la difficoltà di costruire convivenze pacifiche fra differenti. Intrecci e meticciati sempre più diffusi ovunque, che reggono nel tempo e diventano vere e proficue convivenze solo se sono non lasciate al caso – o peggio ostacolate culturalmente – ma costruite e agevolate con consapevolezza e lungimiranza politica, attraverso una “consapevole arte della convivenza”. Insieme a quello ecologista, l’impegno per la costruzione dell’arte della convivenze è stato tra quelli che hanno maggiormente segnato l’esperienza di Langer, anche in riferimento diretto alla tragedia nella ex Jugoslavia che si è consumata negli anni ‘90 del secolo scorso. Anche qui portando una visione che anticipava il futuro, ossia il nostro presente, proponendo essenziali risposte raccolte anche in un vero e proprio Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica (1994). Eccone l’incipit:

“La compresenza pluri-etnica sarà la norma più che l’eccezione; l’alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza. Situazioni di compresenza di comunità di diversa lingua, cultura, religione, etnia sullo stesso territorio saranno sempre più frequenti, soprattutto nelle città. (…). La convivenza pluri-etnica, pluri-culturale, pluri-religiosa, pluri-lingue, pluri-nazionale… appartiene dunque, e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione. Ciò non vuol dire, però, che sia facile o scontata, anzi. La diversità, l’ignoto, l’estraneo complica la vita, può fare paura, può diventare oggetto di diffidenza e di odio, può suscitare competizione sino all’estremo del “mors tua, vita mea”. La stessa esperienza di chi da una valle sposa in un’altra valle della stessa regione, e deve quindi adattarsi e richiede a sua volta rispetto e adattamento, lo dimostra. Le migrazioni sempre più massicce e la mobilità che la vita moderna comporta rendono inevitabilmente più alto il tasso di intreccio inter-etnico ed inter-culturale, in tutte le parti del mondo. Per la prima volta nella storia si può – forse – scegliere consapevolmente di affrontare e risolvere in modo pacifico spostamenti così numerosi di persone, comunità, popoli, anche se alla loro origine sta di solito la violenza (miseria, sfruttamento, degrado ambientale, guerra, persecuzioni…). Ma non bastano retorica e volontarismo dichiarato: se si vuole veramente costruire la compresenza tra diversi sullo stesso territorio, occorre sviluppare una complessa arte della convivenza. (…) L’alternativa tra esclusivismo etnico (comunque motivato, anche per auto-difesa) e convivenza pluri-etnica costituisce la vera questione-chiave nella problematica etnica oggi. Che si tratti di etnie oppresse o minoritarie, di recente o più antica immigrazione, di minoranze religiose, di risvegli etnici o di conflittualità inter-etnica, inter-confessionale, inter-culturale. La convivenza pluri-etnica può essere percepita e vissuta come arricchimento ed opportunità in più piuttosto che come condanna: non servono prediche contro razzismo, intolleranza e xenofobia, ma esperienze e progetti positivi ed una cultura della convivenza”.

Movimento per la pace e alternative credibili alle guerre

Nonostante con l’abbattimento del muro di Berlino nel novembre del 1989 ed il dissolvimento del blocco sovietico, per alcuni anni si fosse registrato un rallentamento della corsa agli armamenti, gli anni ‘90 del secolo scorso furono funestati da due gravi guerre globali: la prima “guerra del Golfo” tra il ‘90 e il ‘91 e la guerra fratricida nella ex Jugoslavia che divampò nel cuore dell’Europa tra il 1991 ed il 2001. In entrambe fu coinvolto pesantemente il nostro Paese. La costruzione della pace diventò l’impegno personale principale di Alex Langer, divenuto intanto parlamentare europeo, anche con la visione di un un nuovo movimento per la pace – all’altezza di risposte pacifiche in un mondo che prevedeva di nuovo la guerra tra le opzioni possibili, anche per l’Italia e l’Europa – capace di proposte concrete per intervenire nei conflitti, in modalità preventiva e mediatoria, con la nonviolenza. Un impegno per il quale si spese senza sosta, fino all’ultimo dei suoi giorni.

“I movimenti per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti. Dobbiamo, dunque, preoccuparci di alternative credibili, se non vogliamo finire per arrenderci alle “guerre giuste” diceva all’International Citizens’ assembly di Roma nel luglio del ‘91 .

Un’”alternativa credibile” è quella che sviluppa per il Parlamento Europeo, dopo aver dovuto prendere atto che – in assenza della preparazione di altri e diversi strumenti di intervento – non rimaneva che l’intervento militare per liberare Sarajevo dall’assedio. Elaborando così la proposta – ancora oggi essenziale – di un Corpo civile di pace europeo , per il quale immagina i seguenti compiti (1995) :

“Prima il corpo sarà inviato nella regione, prima potrà contribuire alla prevenzione dello scoppio violento dei conflitti. In ogni fase dell’operazione potrebbe adempiere a compiti di monitoraggio. Dopo lo scoppio della violenza, esso è là per prevenire ulteriori conflitti e violenze. Nel fare ciò esso ha solo la forza del dialogo nonviolento, della convinzione e della fiducia da costruire o restaurare. Agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E la cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini). Potrebbe cercare di risolvere i conflitti con ogni mezzo d’interposizione ma non imporrà mai qualcosa alle parti. Denuncerà i fautori della violenza e dei misfatti alle autorità locali e internazionali. Denuncerà la cattiva condotta di queste autorità alla comunità internazionale. Si adopererà per allertare tempestivamente e monitorare. Costantemente cercherà di trovare ed enunciare le cause del conflitto o dei conflitti. Farà il possibile per ricostruire le strutture locali. Qualche volta, ma solo su richiesta e temporaneamente, subentrerà alle autorità e ai servizi locali. Più in particolare adempirà ai servizi non armati quotidiani di polizia nelle aree dove la polizia locale non riscuote la fiducia della popolazione. Coopererà nell’area con le organizzazioni umanitarie per provvedere ai rifornimenti e ai servizi, così come per alleviare le sofferenze delle vittime”.

Molte guerre dopo, molte vittime dopo e molti miliardi di euro dopo fagocitati dalla spese militari, le alternative credibili alla guerra – seppur necessarie – non sono state ancora realizzate, se non attraverso piccole e limitate sperimentazioni dal basso, ed oggi sono tra gli obiettivi della campagna Un’altra difesa è possibile dei movimenti nonviolenti, per i disarmo e il servizio civile.

Per questo la visione e l’impegno di Alex Langer – la sua ecologia della politica – mancano più che mai ai movimenti per la salvaguardia del pianeta, ai movimenti antirazzisti ed a quelli per la pace. Ossia ai movimenti costretti a porre ancora oggi le domande alle quali Langer – oltre venticinque anni fa – aveva già dato le risposte essenziali.

(Tutti i testi citati, e molti altri, si trovano sul sito della Fondazione Alexander Langer )


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