Solidarietà & Volontariato

Annotazioni per disarmare la cultura, il linguaggio e l’educazione

di Pasquale Pugliese

E’ probabile che la nonviolenza necessiti proprio di un commiato dalla realtà

così com’è al momento costituita,

al fine di dischiudere le possibilità di un immaginario politico rinnovato

Judith Butler

[La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico]

1. Disarmare la cultura

Lidia Menapace – partigiana e nonviolenta – che ci ha lasciati nei giorni scorsi, diceva spesso che, per una trasformazione nonviolenta della società, il primo passaggio è quello di “disinquinare il linguaggio politico da tutto il simbolico violento e militare” di cui è impregnato: se si chiede “ad un politico professionista di parlare senza metafore belliche, non arriva alla fine della prima frase, perché se non può dire tattica, strategia, schieramento, scendere in campo, alzare la guardia, abbassare la guardia ecc.” non sa come esprimersi. Ma questa ecologia del linguaggio riguarda tutti, aggiungeva Lidia Menapace, a cominciare dai media: “le attività umane sono molteplici, si possono prendere metafore dall’agricoltura, dall’artigianato, dalla tecnologia e scartare proprio quelle belliche”, escludendo – anche dal linguaggio – l’extrema ratio della guerra.

E tuttavia la violenza nelle parole e nei comportamenti discende dalle altre dimensioni della violenza, a partire dagli impliciti culturali che la prevedono. Spiega Johan Galtung – creatore del metodo Transcend per la trasformazione nonviolenta dei conflitti – che al di sotto ed a fondamento della violenza diretta (quella delle guerre, degli omicidi, dei comportamenti) ci sono altri due livelli di violenza: quella strutturale (che comprende l’economia, le leggi, il modello di sviluppo) e quella culturale, ancora più profonda che legittima le altre due, la più difficile da contrastare perché impregna di sé i significati profondi condivisi (come il patriarcato, il razzismo, il militarismo…).

E’ la violenza implicita, per esempio, nella storiografia, che racconta una storia dell’umanità che si sviluppa attraverso le guerre, i tirannicidi e le rivoluzioni armate, raccontando tutte le volte in cui il sangue è stato versato e non quando esso è stato “risparmiato” secondo la definizione della storica Anna Bravo: non i molteplici conflitti tra le persone e tra i popoli trasformati e risolti senza l’uso della violenza. Non a caso, quando faccio formazione ai volontari in servizio civile sulla “difesa civile, non armata e nonviolenta” e mostro loro i documenti storici con i quali, per esempio, la Danimarca lottò contro gli occupanti nazisti senza usare le armi, salvando grazie a questo – unico Paese in Europa – il 98% degli ebrei, rimangono stupiti e mi chiedono perché queste cose non si insegnino a scuola. Nonostante Hannah Arendt abbia scritto ne “La banalità del male” che la resistenza danese sarebbe da studiare in ogni università del pianeta.

Quindi, in realtà, il linguaggio violento non è che un segnale rilevatore di quanto la violenza impregni da sempre la nostra cultura profonda, connoti i nostri impliciti culturali, legittimando così, per esempio, anche la nostra struttura economica, al punto che il nostro Paese si caratterizza per essere tra i primi in Europa e nel mondo per spesa pubblica militare – ossia per la preparazione della violenza regolatrice dei conflitti (nonostante il ripudio costituzionale), con scelte bipartisan (come l’acquisto dei caccia F35) e tutto sommato senza neanche una significativa contestazione popolare – e tra gli ultimi per investimenti nella sanità e nella scuola (nonostante i diritti costituzionali): una crescita costante della prima e un taglio progressivo nelle seconde.

Ma la crisi della pandemia, come tutte le crisi sistemiche, ha fatto esplodere molte contraddizioni, per esempio abbiamo scoperto nello scorso marzo che nel nostro Paese ci sono ben 231 aziende che producono armi (che non hanno mai interrotto la produzione), esportate ovunque nel mondo, e solo una che produce ventilatori polmonari, che invece è stato necessario acquistare all’estero; che per un malinteso senso di sicurezza e di “legittima difesa” nel nostro Paese ci sono milioni di armi nelle case, legalmente detenute – con le quali vengono commessi, per esempio, molti femminicidi – ma molti non sanno che cosa sia un saturimetro, strumento di misurazione della quantità di ossigeno nel sangue che – avere in casa – potrebbe esso sì dare sicurezza.

Ma poiché la situazione è sempre più complessa delle sue rappresentazioni, bisogna aggiungere anche che in questi ultimi venti anni, nel nostro Paese, c’è stata una fortissima riduzione della “violenza diretta” interna, ossia il numero dei reati violenti ha avuto un’importante riduzione a datare tra la fine del ‘900 e il 2000 – pensiamo a quante sono state in Italia le vittime del terrorismo stragista e mafioso fino agli anni ‘90 del secolo scorso – a dispetto dei continui “allarmi sicurezza”, e tuttavia c’è un aumento dei reati legati all’odio razziale e, contemporaneamente, il Mediterraneo è diventato una tomba per migliaia di persone che cercano la salvezza in questa Europa che ha chiuso i suoi porti e vietato il soccorso in mare (con la beffa linguistica dei cosiddetti “decreti sicurezza”): è come se la violenza, ridotta nei confronti dei “nostri”, fosse stata trasferita in maniera strutturale nei confronti degli “altri”, riproducendo il classico meccanismo del capro espiatorio.

C’è quindi da lavorare sul disarmo culturale, ossia sulla violenza come ultima riserva che apparentemente “garantisce” lo stare al mondo, di cui il linguaggio è un epifenomeno. La questione centrale del disarmo culturale è il disonorare la violenza in tutte le sue forme: non solo non esiste la guerra giusta, ma neanche la violenza giusta. Per esempio, è necessario assumere ed espandere la consapevolezza – la “persuasione” diceva Aldo Capitini – che ogni euro usato per preparare la violenza e la guerra è sottratto alla tutela e promozione della vita e della pace. E questo in un pianeta che – mentre non riesce a proteggersi dalla pandemia ed è minacciato dai cambiamenti climatici – spende 2000 miliardi di dollari all’anno (ossia 4 milioni al minuto) in spese militari non è più tollerabile. E’ necessario un salto di civiltà: da un lato i movimenti e le organizzazioni che si occupano di pace e disarmo devono assumere dentro l’orizzonte del disarmo anche la dimensione culturale, compresa quella del linguaggio, come spiegava Lidia Menapace; dall’altro chi si occupa della decostruzione della violenza nel linguaggio non può non tenere presente le altre dimensioni della violenza culturale e strutturale, oltre che diretta

2. Disarmare il linguaggio

E’ interessante analizzare velocemente come il linguaggio utilizzato nella gestione della pandemia contenga riferimenti violenti, ai quali bisogna porre attenzione: non abbiamo trovato altri modi per spiegare l’impegno per difendere la comunità dall’epidemia che usando le metafore belliche, facendo del “fare la guerra” al virus nelle “trincee” degli ospedali un paradigma interpretativo. Ma si tratta di un paradigma sbagliato, perché semplifica ciò che è complesso, impersonifica in un nemico alieno ciò che è un elemento naturale esploso all’interno di un sistema malato, crea il mito degli eroi – i medici, gli infermieri – come facile via di fuga anziché rispondere dei tagli alla sanità, rilancia il mito della guerra come mobilitazione positiva di energie, nasconde infine il tema centrale che è il prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altro come efficace modello di difesa – la civiltà della cura – e paradigma efficace, che passa anche attraverso l’uso delle mascherine, delle rinunce e del distanziamento fisico, a beneficio dei più vulnerabili.

I riferimenti violenti del linguaggio, quindi, non sono solo quelli esplicitamente di odio che caratterizzano il dilagante hate spech, in particolare sui social media, ma anche quelli apparentemente più puliti e neutri, che a volte nascondono l’abisso. Eccone alcuni ulteriori esempi:

pensiamo alla parola “difesa” per la quale il nostro Paese spende ventisei/ventisette miliardi di dollari all’anno per acquistare armi di offesa, anche nucleare, come i famosi caccia-bombardieri F35 (con i quali, per esempio – follia nella follia – sono state fatti test atomici, anche lo scorso agosto nel deserto del Nevada, mentre gli USA viaggiavano verso i 200.000 mordi e i sei milioni di contagi);

pensiamo alla locuzione “missioni di pace”, che è servita a edulcorare e far digerire le operazioni di guerra in giro per il mondo che hanno favorito – e in certi casi creato – il terrorismo internazionale;

– pensiamo alla locuzione “guerra di religione” o, addirittura “scontro di civiltà”, che vengono utilizzate per leggere attraverso una lente deformante il fenomeno del terrorismo islamico in una cornice anti-musulmana, quando le masse musulmane invece sono le principali vittime del terrorismo islamico;

– pensiamo alla locuzione “export commerciale” quando si riferisce al commercio di armi di cui il nostro Paese è tra i principale esportatori – anche verso l’Egitto, nonostante la tragica vicenda di Giulio Regeni – armi che fanno vittime ovunque nel mondo;

– pensiamo alle parole “legittima difesa” o “sicurezza” con le quali si vogliono introdurre anche nel nostro paese norme che rendano ancora più facile l’acquisto e l’uso di armi da fuoco per portarci verso uno scenario statunitense dove in nome di queste parole tutti acquistano ed usano armi che – ogni anno – uccidono 40.000 cittadini statunitensi, diventati i peggiori nemici di se stessi;

– pensiamo ancora alla parola “identità”, com’è diventata una parola “tossica” – come la definisce Francesco Remotti il decano dei antropologi italiani – usata come una clava per distinguere un presunto “noi” da presunti “altri”: non a caso le più seguite serie tv degli ultimi anni, quelle che hanno plasmato maggiormente l’immaginario culturale – da “Lost” al “Trono di spade”, per citarne solo alcune – per indicare i portatori del pericolo estremo per la comunità dei “nostri” li definiscono “gli altri”, “gli estranei”, “the others”.

C’è, infine, un luogo virtuale – ma in realtà estremamente reale – dove tutte queste dimensioni convergono e sono i social-media, che si fanno veicolo – anche attraverso le fake-news – di quantità industriali di violenza culturale, dove esplode anche la violenza verbale, che a volte diventa anche violenza diretta, come la bande di adolescenti che si danno appuntamento sulle chat per massacrarsi di botte nella realtà. I social non hanno inventato le bufale, non hanno inventato il linguaggio violento, ne le botte, ma hanno enormemente potenziato le capacità di ciascuno di produrre e diffondere contenuti violenti. Ma anche di bloccarli e di produrre e diffondere contenuti nonviolenti. Anche su questa doppia possibilità si gioca la sfida dell’educazione

3. Disarmare l’educazione

Nelle condizioni date, parafrasando la formula di Heidegger secondo la quale “Ormai solo un dio ci può salvare”, possiamo dire che ormai solo l’educazione ci può salvare . Si tratta di ribaltare il detto latino si vis pacem para bellum – se vuoi la pace prepara la guerra – e di sostituirlo con un principio nuovo: se vuoi la pace prepara la pace, come proponeva Aldo Capitini. Che cosa vuol dire preparare la pace su un piano educativo? Significa decostruire e delegittimare la violenza culturale e promuovere una narrazione di senso ed una pratica di relazioni radicalmente alternative: quelle della nonviolenza. Che non è solo l’assenza di violenza – che ne è la condizione necessaria ma non sufficiente – ma la costruzione di una prospettiva differente di approccio alla realtà ed alle relazioni. Com’è scritto efficacemente nel preambolo della Carta dell’UNESCO, “Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere poste le difese della pace”. Allora vediamo alcuni elementi che – a mio avviso – sono costitutivi di un’educazione disarmata fondata sulla nonviolenza:

Educare alla complessità: viviamo in un sistema complesso ed interconnesso, rispetto al quale – come ha insegnato Edgar Morin – non ci sono risposte e soluzioni semplici, se non quelle fondate sulla violenza. Dunque non sono soluzioni. La nonviolenza, invece, è un modo adeguato per stare al mondo nel tempo della complessità.

Educare al pensiero critico: la realtà e la società non vanno accettate così come sono, ma possono essere cambiate, trasformate. La violenza non è un destino dell’umanità ma una sua scelta culturale che può essere modificata. Com’è scritto anche nelle conclusioni di un documento scientifico dell’Unesco, la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, purtroppo non sufficientemente conosciuto: “Concludiamo affermando che la biologia non condanna l’umanità alla guerra. La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità”;

Educare alla responsabilità, che è un elemento ulteriore rispetto alla – pur necessaria – educazione alla legalità. Ossia educare al rispetto della legge finché la legge è giusta ma anche all’obiezione di coscienza individuale ed alla disobbedienza civile collettiva se la legge è sbagliata. Per preparare una legge più giusta. E’ il principio di Antigone, all’origine della civiltà occidentale, che don Milani ha ribadito con la formula “l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.

Educare all’empowerment, alla gestione positiva ed assertiva del potere che ciascuno possiede. Il potere non come sostantivo singolare maschile, ma come declinazione del verbo potere: io posso, tu puoi, egli può, noi possiamo, voi potete, loro possono. “Il potere di tutti” lo definisce Aldo Capitini.

Educare a considerare e trattare l’altro sempre come un fine e mai come un mezzo, come ha insegnato Immanuel Kant, dunque educare al rispetto per l’altro, al rispetto della sua vita e della sua dignità, indipendentemente dalla provenienza, dalla religione, dal colore della pelle, e da qualsiasi ulteriore specificazione.

Educare al disarmo, che è disarmo culturale prima che militare. Educare ad uscire dall’egocentrismo, dal nazionalismo, dall’antropocentrismo… Educare al decentramento cognitivo, a guardarci dal punto di vista degli altri, all’ascolto attivo. Competenze fondamentali per stare al mondo nei contesti intercultuali

Educare all’umanizzazione dell’avversario: “la nonviolenza è appassionamento all’esistenza, alla libertà ed allo sviluppo di ogni essere” ripeteva Aldo Capitini. Dunque non esistono nemici, che vengono regolarmente de-umanizzati, semmai avversari che vanno umanizzati.

Educare a concentrarsi su mezzi che siano coerenti con i fini, perché come dice Gandhi “il mezzo sta al fine come il seme sta all’albero, tra i due c’è lo stesso inviolabile legame che c’è tra il seme e l’albero”. Solo i mezzi che usiamo sono nella nostra disponibilità, non i fini;

Educare alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, ossia educare a gestire i conflitti, anche interpersonali, con il metodo nonviolento, in modo che da potenziali distruttori delle relazioni – e principio della violenza e delle guerre – essi possano essere occasione di relazioni più intense e profonde;

Educare a vincere le “passioni tristi” formando personalità nonviolente, come invita a fare il filosofo Giuliano Pontara: educare al coraggio, all’impegno, alla fiducia negli altri, alla tenacia, alla resilienza, all’empatia, alla creatività, alla mitezza: in una parola alla capacità di sconfiggere la paura.

Disarmare la cultura, il linguaggio e l’educazione credo che sia il lavoro necessario, qui ed ora, per quel “commiato dalla realtà” – in questo tempo della pandemia universale – che la filosofa Judith Butler propone alla nonviolenza “al fine di dischiudere le possibilità di un immaginario politico rinnovato”. E non solo politico


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