Solidarietà & Volontariato

La violenza e la sua ovvietà: il problema fondamentale della condizione umana

di Pasquale Pugliese

[Un’intervista a cura dell’edizione italiana di Pressenza International Press Agency, con un ringraziamento all’amico Olivier Turquet]

E’ uscito presso i tipi di GoWare il libro di Pasquale Pugliese Disarmare il virus della violenza; ne parliamo con l’autore, attivista del Movimento Nonviolento, saggista e studioso di questioni legate alla nonviolenza.

Il libro raccoglie una scelta dei tuoi scritti durante la pandemia, sulla falsariga dei due virus,il corona e la violenza: puoi spiegarci questa linea di pensiero?

La violenza, dice la filosofa Hannah Arendt nel suo studio “Sulla violenza”, è data talmente per scontata negli affari umani – in particolare politici e storici, pensiamo alle guerre comunque aggettivate – che quasi mai è oggetto di attenzione perché “nessuno mette in discussione o sottopone a verifica ciò che è ovvio per tutti”. Eppure la violenza e la sua ovvietà, il suo essere l’implicito culturale da non mettere in discussione è il problema fondamentale della condizione umana, tanto sul piano personale che collettivo. Per questo penso che sia necessario metterla a tema in tutte le sue dimensioni, a cominciare proprio da quelle più implicite, e contemporaneamente provare a fornire un contributo a decostruirne il suo essere ovvia per tutti e, insieme, a prepararne le alternative. Questa urgenza è emersa in modo particolarmente evidente durante la pandemia di covid-19, ossia durante un lungo periodo di crisi globale nella quale siamo ancora immersi che, mentre ha reso esplicite le molte contraddizioni che l’hanno generata, può rappresentare anche l’occasione per cambiare strada, porre rimedio agli errori del passato, aprire nuove e differenti prospettive di sviluppo. Ho provato quindi a mettere a tema la violenza, sottrarla all’ovvio, dirne la verità che è aletheia, cioè disvelamento come era chiaro ai greci, e indicarne alcune via di superamento. Per farlo ho racconto in queste pagine una selezione ragionata degli interventi dell’ultimo anno e mezzo sui blog che curo che, nell’insieme, propongono una sorta di contro-narrazione di una fase drammatica della nostra storia presente, mettendo in fila, fenomenologicamente, alcuni esempi di violenza culturale – per esempio nel linguaggio, nei media, nella narrazione pubblica della pandemia – e di violenza strutturale – a cominciare dalla contraddizione tra le minacce reali e le difese approntate. Proponendo infine alcune uscite di sicurezza dall’epoca delle molte “pandemie”, non solo da virus, delle piste di lavoro per impegnarsi nel disarmare la violenza: il compito più urgente.

Nei tuoi scritti denunci con forza la contraddizione tra i tagli alla sanità e le spese militari: dove sta la radice di questa insensatezza che la crisi pandemica dovrebbe aver reso evidente?

Il 26 aprile 2021 è stato pubblicato l’annuale rapporto del SIPRI l’autorevole organismo indipendente internazionale che ogni anno compila un rapporto sulle spese militari globali, relativo all’anno precedente. Ebbene, il rapporto registra che nel 2020, nel pieno dell’imperversare della pandemia, i governi nel loro insieme hanno aumentato ancora, per l’ennesima volta, le spese militari, attestate ormai su quasi 2000 miliardi di dollari. Ciò significa che ogni giorno, mentre prosegue il triste conteggio dei morti a tutte le latitudini, i governi spendono complessivamente in armamenti 5,4 miliardi di dollari, che vengono sottratti alle spese sanitarie, sociali, civili, culturali. Si tratta dunque di enormi risorse scippate all’impegno per salvaguardare e proteggere vite umane e consegnate all’industria che, invece, progetta, costruisce e vende strumenti per uccidere vite umane. Una cifra quotidiana, per esempio, ampiamente superiore al budget biennale dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità, che è di 4,8 miliardi. All’interno di questo dato, l’Italia si colloca all’undicesimo posto al mondo e al quarto posto in Europa, dove invece è ultima in tutte le graduatorie virtuose dell’Eurostat, per esempio per investimenti per l’istruzione, la cultura, la ricerca, il numero di laureati; ed è prima per disoccupazione giovanile e per neet, giovani che non studiano, non lavorano, non seguono percorsi formativi. Nel nostro Paese, in aggiunta, la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Non a caso già nel 2012 la rivista Famiglia cristiana pubblicava la significativa vignetta, che è circolata per anni sui social, che rappresenta un degente in ospedale costretto a camuffare il proprio letto in cacciabombardiere F35, affinché non venisse tagliato. In quel disegno premonitore, come spesso accade agli artisti, sta la radice dell’insensatezza, esplosa (è il caso di dirlo) con la pandemia, che svela il grande equivoco culturale, prima che politico, tra le minacce reali e le spese folli per una “difesa” bellicamente intesa.

Ci siamo detti che la pandemia ci avrebbe aiutato a riprendere contatto con l’essenza delle cose, a comprendere la violenza, a priorizzare le emergenze di fondo: è successo? Può succedere? Deve succedere?

Di fronte all’ennesimo naufragio, la strage di 130 migranti avvenuta il 21 aprile 2021 nel Canale di Sicilia Safa Msehli, portavoce dell’Organizzazione ONU per i migranti, ha ricordato che “hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone”, ed ha chiesto se questa sia “l’eredità dell’Europa”. Non so se ne sia anche l’eredità, ma di sicuro questa è la sua, ossia la nostra, vergogna. Una vergogna senza fine, fondata sulla diseguale “dignità di lutto”, per citare la filosofa Judith Butler, che vede una mobilitazione internazionale per curare e vaccinare contro l’epidemia da covid-19 quante più persone possibili, in una corsa contro il tempo dentro alla fortezza Europa e, contemporaneamente, lascia annegare in mare, in un rimpallo di responsabilità, migliaia di persone all’esterno, che tentano di entrarvi, sepolte sul fondo del Mediterraneo, trasformato ormai in cimitero. Il soccorso e la sua omissione, i salvati e i sommersi.

Assistiamo ad un conteggio quotidiano dei morti dentro a un’inedita rappresentazione mediatica della morte, quella vera, quella che ci coinvolge in prima persona. Ma si tratta dei “nostri” morti e della nostra rappresentazione, dalla quale rimane fuori la condizione di fragilità dell’umanità nel suo insieme che, mentre corre ai ripari rispetto al virus pandemico e chiude le porte abbandonando al loro destino i naufraghi della miseria, continua la corsa agli armamenti, anche nucleari, che mettono sotto ipoteca la vita di tutti. Senza che di questo paradosso vi sia ancora coscienza né discussione pubblica, anzi, attraverso l’attivazione della rimozione collettiva.

Lo stesso accade in relazione al clima, rispetto al quale a fronte di una situazione globale sempre più grave – colta dalla mobilitazione dal basso da parte dei più giovani ma interrotta dalle misure sanitarie – non c’è ancora consapevolezza diffusa della crisi sistemica nella quale ci stiamo velocemente immergendo, rispetto alla quale il ministro italiano alla “transizione ecologica” – anziché attivare misure “straordinarie e urgenti” all’altezza della situazione – ha recentemente affermato che le posizioni ecologiche radicali sono “peggio della catastrofe climatica”… Ecco, c’è molta strada da fare rispetto alla messa in fila della priorità, il mio libro vuole essere un piccolo contributo in questo senso.

Nel libro analizzi alcuni aspetti della violenza rifacendoti all’analisi di Galtung. Ce li potresti spiegare?

Si, per spiegare la ragione dei meccanismi di rimozione, faccio mia l’analisi di Johan Galtung in relazione ad sistema che definisce “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove “la violenza diretta è un evento; la violenza strutturale è un processo con alti e bassi, la violenza culturale è un’invarianza, una permanenza, che rimane essenzialmente la stessa per lunghi periodi di tempo, data la lentezza delle trasformazioni della cultura di base” (Galtung). La prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Inoltre, la violenza strutturale è anche quella esercitata da alcuni poteri, per certi versi occulti, come per esempio “il complesso militare-industriale”, rispetto al quale metteva in guardia negli USA già il presidente Dwight Eisenhower, il quale, in quanto ex generale, se ne intendeva. È il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti” – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.

Da varie parti ci si interroga su un’azione più decisa dei movimenti in senso ecopacifista. Io aggiungerei con una forte impronta nonviolenta. Tu cosa ne pensi?

In realtà, per citare Nanni Salio – uno dei punti di riferimento nella nonviolenza italiana, la cui analisi puntuale purtroppo è mancata troppo presto – “il movimento per la pace è un movimento che non c’è”, ossia dall’abbattimento del muro di Berlino in avanti si è manifestato come movimento occasionale capace di mobilitarsi, anche in maniera importante, solo in conseguenza di eventi bellici (pensiamo alle grandi manifestazioni contro le guerre in Afghanistan ed in Iraq), ma sfaldandosi subito dopo, senza riuscire a fermare nessun cacciabombardiere. Solo piccoli movimenti nonviolenti hanno continuato nel tempo l’impegno per il disarmo, seguendo le indicazioni di Aldo Capitini “se vuoi la pace prepara la pace”. Tuttavia, seppur il “movimento pacifista” negli ultimi decenni ha avuto un ridimensionamento dal punto di vista della capacità di mettere in campo grandi manifestazioni di contrasto alle guerre, dal punto di vista delle organizzazioni e delle campagne c’è da segnalare una importante dinamicità: per esempio le due reti nazionali – Rete Pace e Rete Italiana Disarmo – a cui aderiscono molte organizzazioni della società civile, pur in questa epoca di frammentazioni, sono riuscite a fondersi ed a costituire una più grande Rete Pace e Disarmo, che porta avanti – anche con alcuni successi – diverse campagne, con competenza ed attenzione. Per esempio quella che ha fatto si che l’ultimo atto del governo “Conte 2” fosse la revoca delle commissioni militari italiane per l’Arabia Saudita, o la campagna internazionale ICAN (che ha vinto anche il premio Nobel per la pace) che ha portato al Trattato ONU per la messa al bando delle armi nucleari, al quale tuttavia il nostro Paese non ha ancora aderito… Si tratta di forme di mobilitazione sicuramente diverse rispetto al passato, ma non per questo meno significative, almeno in termini di risultati se non di coinvolgimento di massa. Personalmente, inoltre, credo che l’impegno per la pace debba essere ancora l’impegno essenziale per tutte e tutti e riconsegnerei ancora ad esso tutto il tempo e le energie che ho investito, anche di fronte ad una situazione che dal punto di vista dell’attenzione a questi temi è assolutamente peggiorata, nonostante le spese militari italiane e globali raggiungano – anno dopo anno – picchi mai visti prima, sottraendo enormi risorse agli investimenti civili e sociali, e quindicimila testate nucleari di nuova generazione sono puntate contro le nostre teste. Siamo nel pieno di una nuova corsa agli armamenti, senza che ve ne sia alcuna consapevolezza: per questo credo che occorra un vero e proprio lavoro di coscientizzazione. Ed a questo cerco di dedicarmi ancora.


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