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Prima che sia troppo tardi. Dalla retorica della pace al disarmo militare e culturale

di Pasquale Pugliese

Mentre con grande dispiegamento mediatico a Roma si incontrano i governi dei G20 che coprono da soli circa il 90% della spesa militare globale – la quale, complessivamente, costa ai cittadini del pianeta quasi duemila miliardi di dollari all’anno – e nella loro agenda manca il punto fondamentale del disarmo e dell’investimento delle enormi risorse così liberate nella difesa dell’umanità dalle molteplici minacce reali – le pandemie, i cambiamenti climatici, la povertà la fame, l’ignoranza, la guerra – mi pare opportuno pubblicare la versione integrale dell’intervista al magazine Vita (a cura di Marco Dotti) su questo tema, della quale una sintesi è uscita sul numero di ottobre in edicola.

Spesso contrapponiamo “pace” a “guerra”, ma forse per capire il valore grande di questa parola occorre allargare il campo: pace – per citare il titolo del suo ultimo libro – come antidoto alla violenza. Una violenza che è sempre più sistemica e diffusa e assume molti volti… Ci aiuta a capire il valore e l’importanza di una vera cultura della pace, oggi?

Dopo vent’anni di guerre fallimentari (come lo sono tutte le guerre) spacciate per “missioni di pace”, credo che bisogna mettere a fuoco i processi reali capaci di costruire e mantenere la pace, per questo nel mio libro – il cui titolo completo è Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie (edizioni GoWare) – metto a tema le questioni delle minacce, della difesa, del disarmo e della nonviolenza ma, per poterne fare una corretta declinazione, ancora prima metto a tema la questione della violenza, nei suoi diversi livelli, a cominciare da quelli più profondi, dati per scontati e considerati “ovvi”. A questo scopo credo molto utile riprendere l’analisi di Johan Galtung in relazione al sistema composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove la violenza diretta è più evidente perché è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Violenza strutturale è, per esempio, il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti” (come scrive Hannah Arendt in Sulla violenza) – l’uso della violenza (per esempio la guerra), la produzione dei mezzi a essa necessari (per esempio le armi) e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo (le spese militari). Quindi una autentica cultura di pace, che voglia davvero disarmare la violenza e la sua massima espressione che è la guerra – non può rimanere solo sul piano del contrasto alla violenza diretta, alla guerra ormai esplosa, ma deve porsi il tema di di disarmare i livelli sottostanti di violenza che preparano, sostengono e legittimano la guerra. E costruirne le alternative nonviolente.

Pace e accoglienza (dell’altro) possono esistere disgiunti?

Il tema dell’accoglienza ci aiuta a mettere a fuoco un aspetto specifico di questi livelli sottostanti di violenza, rispetto ai quali i respingimenti sono solo l’elemento violento più superficiale e diretto. Alcuni dati ci possono aiutare a comprendere meglio. Lo scorso aprile il SIPRI – l’autorevole e indipendente istituto di ricerca di Stoccolma che, anno dopo anno, registra in maniera comparativa le spese militari mondiali – ha pubblicato il Rapporto 2020 dal quale emerge che, in piena pandemia, i governi hanno speso complessivamente in armamenti quasi 2000 miliardi di dollari, circa 5,2 milioni al giorno: una cifra mai raggiunta prima. Quasi contemporaneamente, lo scorso giugno, il Rapporto dell’Alto commissariato ONU per i rifuguati ha comunicato che il numero di persone in fuga da guerre in tutto il mondo nel 2020 ha superato gli 82 milioni, un numero pari a più del doppio di quello registrato dieci anni fa e aumentato di 3 milioni rispetto all’anno precedente. Si tratta, dunque, con tutta evidenza di un perverso circolo vizioso: la produzione e la vendita delle armi alimentano le guerre, che generano profughi, che cercano protezione e rifugio verso gli stessi paesi che governano in massima parte il commercio mondiale degli armamenti. Dai quali, vengono respinti… Quindi il primo passo verso un’autentica accoglienza dell’altro è esattamente il disarmo e la condivisione dei dividendi di pace, cioè la risorse liberate, attraverso l’investimento nella difesa dalle vere minacce, a partire dalla catastrofe ecologica che genera, a sua volta, ulteriori profughi e migranti ambientali. E’ questa la prima e più radicale forma di “accoglienza”: lottare contro le cause che generano le fughe.

La non violenza può essere ancora un modello etico e valoriale per la nostra società?

Al punto in cui siamo – con la nuova ed inarrestabile corsa agli armamenti e con circa tredicimila testate nucleari di nuova generazione puntate contro l’umanità – la nonviolenza (scritta senza trattino, come insegnava Aldo Capitini, perché non è solo astensione dalla violenza ma è la proposta di un paradigma differente di stare al mondo) è l’unica via di salvezza che corrisponde ad un necessario salto di civiltà. Il quale, tuttavia, non avverrà senza un processo di coscientizzazione che, per poter aggredire (dal latino ad-gredior, andare-verso) davvero i livelli di violenza superiori, deve decostruirne anche quello più profondo: la violenza culturale. Per questo – come scrivo nel libro (e parafrasando Heidegger) – credo che ormai solo l’educazione ci può salvare. Un’educazione intenzionalmente nonviolenta che contenga amento questi fondamenti: educare alla complessità, al pensiero critico, alla responsabilità, all’empowerment, a considerare e trattare l’altro sempre un fine e mai un mezzo; e poi educare al disarmo, all’umanizzazione dell’avversario, a concentrarsi su mezzi che siano coerenti con i fini, alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, educare personalità nonviolente (ossia al coraggio, all’impegno, alla fiducia negli altri, alla tenacia, alla resilienza, all’empatia, alla creatività, alla mitezza: in una parola alla capacità di sconfiggere la paura)

Come sostenere la pace, oggi?

Detto tutto questo, la prima cosa da fare è evitare la retorica della pace, ma impegnarsi nella costruzione di politiche attive di pace, delle quali queste – a mio avviso – sono le principali e più urgenti: la riconversione sociale delle spese militari, la riconversione civile dell’industria bellica, l’adesione al Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari, la costruzione della difesa civile non armata e nonviolenta. Politiche che non saranno mai messe in campo dai governi finché non saranno imposte dalle rispettive società civili, pienamente coscienti della loro urgenza. Prima che sia troppo tardi.


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