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Smilitarizzare la mente. Un’intervista per disarmare il virus della guerra

di Pasquale Pugliese

Dall’assurda sospensione di corsi universitari su Fëdor Dostoevskij, alle accuse automatiche di “filo-putinismo” per chiunque provi ad articolare discorsi approfonditi. Stiamo degenerando verso una pedagogia di guerra, le cui tracce linguistiche serpeggiavano già con la pandemia. Il filosofo ci spiega il suo punto di vista

La pace è una scelta. Non ha soltanto delle connotazioni teoriche, ideologiche. Per questo in un suo recente articolo ha recuperato i concetti di etica della responsabilità e principio di responsabilità, con riferimenti a Max Weber e a Hans Jonas?

Proprio così: oggi più che mai la costruzione di politiche attive di pace – da preparare giorno per giorno, come ricordava Capitini – risponde a un preciso imperativo etico. Max Weber, già dopo la prima guerra mondiale, distingueva l’agire politico secondo ”etica dell’intenzione” da quello secondo ”etica della responsabilità”. Nell’agire secondo l’etica dell’intenzione ci preoccupiamo di avere la coscienza a posto rispetto all’obiettivo da conseguire, qualunque esso sia, e quindi ogni mezzo appare legittimo per raggiungere il fine, senza occuparci delle conseguenze. Secondo l’etica della responsabilità, al contrario, si cerca di prevedere e valutare le conseguenze del proprio agire, per cui se il perseguimento di un obiettivo buono rischia di produrre “effetti collaterali” negativi, bisogna mettere in campo dei mezzi coerenti con i fini da raggiungere. Nel nostro tempo, il principio responsabilità è stato riformulato dal filosofo Hans Jonas come “etica per la civiltà tecnologica”, secondo la seguente prescrizione: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». E proprio la vita umana, da Hiroshima in avanti, è sotto la spada di Damocle della minaccia delle armi nucleari. Il Bollettino degli scienziati ci avvisa – ormai consecutivamente da tre anni- che siamo a soli cento secondi dall’apocalisse, per cui è necessario ri/prendere coscienza del nostro status di “quelli-che-esistono-ancora”, come scriveva il filosofo Günther Anders. Dunque qualunque azione politica non può non tenere conto, in modo responsabile, della situazione atomica e agire di conseguenza, a cominciare dalla gestione dei conflitti internazionali. E anche se la coscienza diffusa di questa possibilità, presente fino all’abbattimento del Muro di Berlino, è stata man mano rimossa dalle generazioni successive, nelle condizioni date, come diceva Martin Luther King: «O impariamo a vivere come fratelli o periremo insieme come stolti».

L’Italia e l’Europa non esitano ad inviare armi all’Ucraina. Molti intellettuali sostengono che si tratta di una operazione necessaria per difendere un popolo aggredito che deve resistere, come ha fatto l’Italia durante la seconda guerra mondiale. È un paragone sbagliato?

Anche il tema della resistenza ucraina si inquadra all’interno della situazione globale descritta prima, alla luce della quale non si tratta di giudicare come gli ucraini esercitano il proprio diritto alla difesa contro l’occupazione dell’esercito russo, ma di valutare che cosa è saggio e lungimirante fare da parte nostra. Ebbene io credo – e ho scritto – che l’invio di armi in Ucraina, da parte dei governi occidentali e in specie di quello italiano, sia una scelta inaccettabile sul piano etico, sbagliata sul piano politico ed al limite della legalità sul piano giuridico. È inaccettabile perché – per quanto l’Ucraina abbia deciso si rispondere all’invasione russa con la resistenza armata – l’invio di armi non risponde al principio di responsabilità nel contesto concreto del rischio di guerra atomica tra potenze nucleari che mette in pericolo l’umanità. È sbagliata perché l’aggiunta continua di armi alle armi già presenti non solo getta benzina su fuoco in un incendio che divampa, ma allontana, anziché avvicinare, il momento del cessate il fuoco e della pace, perché dà forza agli oltranzisti anziché ai negoziatori. È al limite della legalità perché, anche se è stata formalmente osservata la legge 185 del 1990, l’invio di armi rappresenta un atto sostanzialmente contrario al ripudio costituzionale della guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», essendo un atto di belligeranza.

Lei ha parlato in suo articolo di “smilitarizzazione delle menti”. Cosa intende con questa espressione?

Intendo dire che la nostra intelligenza è costretta violentemente all’interno di una logica binaria, montata con incredibile velocità sui mezzi d’informazione del nostro paese e nelle scelte politiche – quasi unanimi – con il martellamento sul dovere di partecipazione attiva alla guerra, attraverso l’invio di armi all’Ucraina come unica risposta possibile. Con l’assurdo corollario di esplicita accusa di “filoputinismo” a chi provi ad esercitare minimamente il pensiero critico contro questa banalizzazione che annulla qualsiasi ragionamento complesso.

Ma bisognerebbe smilitarizzare anche il linguaggio…

Come insegnano i filosofi del linguaggio, noi abitiamo la lingua che parliamo, perché il linguaggio costruisce e definisce gli elementi concettuali e simbolici del mondo in cui viviamo. È uno dei temi che ho affrontato nel libro Disarmare il virus della violenza (GoWare, 2021): il linguaggio bellico è interno alla cornice di violenza sistemica, di cui – come ha spiegato Johan Galtung, uno dei fondatore dei peace studies – la violenza culturale è la più profonda, radicata e difficile da decostruire e disarmare. La violenza culturale è ciò di cui siamo impregnati, la guerra e la sua preparazione sono interni ai nostri impliciti culturali e il linguaggio bellico, la cui retorica s’impone nei momenti di crisi, qualunque ne sia la causa, ne è l’epifenomeno più evidente. In aggiunta – per esempio – nella gestione italiana della pandemia, la metafora bellica ha svolto non solo un ruolo di narrazione, ma anche di orientamento e, in uno scivolamento progressivo, anche di generazione della realtà, che oggi dispiega pienamente i propri effetti nefasti con le pulsioni “interventiste” che ricordano quelle del 1914. E sappiamo come andò a finire. Si tratta dunque non solo di dismettere la retorica lessicale della trincea, che è il primo passo, ma anche, più radicalmente, di compiere un salto di civiltà dismettendo, finalmente, la logica della trincea dal nostro cervello. E le sue applicazioni pratiche.

Si può dunque uscire dalla logica amico/nemico?

Occorre uscire dalla logica amico/nemico, perché è alla base della smilitarizzazione del pensiero. Invece oggi stiamo assistendo esattamente al suo contrario, al pericoloso montare di una vera e propria pedagogia di guerra che accusa l’esercizio del pensiero complesso, ossia ragionante, di partigianeria con il “nemico”, in una degenerazione logica progressiva, giunta fino all’assurdo della sospensione di corsi universitari su Fëdor Dostoevskij, la cui unica “colpa” è quella di essere stato uno scrittore che la Russia ha donato all’umanità. La messa al bando della capacità di svolgere ragionamenti fondati sulla complessità è, in verità, la fine dell’intelligenza tout court, ossia della capacità di “intus legere”, di leggere dentro ai fenomeni, in particolare in quelli dirompenti come i conflitti che – per essere affrontati e portati saggiamente a soluzioni non catastrofiche – necessitano di un di più, non di un di meno, di intelligenza. Invece vediamo su tutti i media schiere di sedicenti “esperti” che schiumano rabbia chiedendo a chiunque provi ad articolare un ragionamento intelligente di schierarsi: poche chiacchiere, o qua o di là, o con i buoni o con i cattivi, o con gli amici o con i nemici.

E l’uscita dalla Nato potrebbe essere un primo segnale di cambiamento?

All’interno di questa logica, la Nato è un residuato bellico del ‘900 che, anziché essere disinnescato come si fa con le bombe inesplose, si muove ancora nel paradigma della politica di potenza – non con quello dell’etica della responsabilità – sul cui altare vengono sacrificate ingenti e crescenti risorse economiche dei bilanci degli stati, sottratte agli investimenti civili e sociali. Per cui sì, uscirne sarebbe un segnale di cambiamento, di ecologia della mente, oltre che di ecologia politica.

Fra le proposte avanzate dal Movimento Nonviolento c’è quella della neutralità attiva. Cosa si intende con questo concetto?

Usciamo subito da un equivoco: non è un principio di “equidistanza” tra aggredito ed aggressore, ma in una logica nonviolenta nella quale «tra il mezzo e il fine c’è lo stesso inviolabile nesso che c’è tra il seme e l’albero» (Mohāndās Karamchand Gāndhi ), la neutralità attiva è sia mezzo che fine. Come mezzo, è la rinuncia da parte del nostro paese ad ogni forma di sostegno, diretto e indiretto, al conflitto armato – compreso l’invio di sistemi militari ad una delle parti – per promuovere una effettiva de-escalation della violenza armata, la via diplomatica e le iniziative nonviolente di interposizione. Come fine, si contraddistingue, sul piano politico e militare, per sostenere la piena autonomia dell’Ucraina nei confronti delle potenze nucleari, Stati Uniti e Russia. Ed è possibile sostenendo attivamente tutti coloro che – all’interno dei due fronti contrapposti – si muovono con l’etica della responsabilità e la forza della nonviolenza: gli obiettori di coscienza, i disertori, i resistenti alla guerra e i dissidenti alla logica bellica i quali stanno pagando in prima persona e a caro prezzo le loro azioni. Dando voce e forza ai costruttori di pace russi e ucraini che chiedono ai rispettivi governi di deporre le armi e di sedersi al tavolo delle trattative.

Ritorniamo al discorso sul virus della violenza. La pace è sinonimo di cura o di prevenzione?

La pace è sia cura che prevenzione, purché si esca dalla retorica della pace – per la quale si fanno anche le guerre e si vendono le armi – e si entri nelle politiche attive e continuative di pace: disarmo, riconversione sociale delle spese militari, riconversione civile dell’industria bellica, proibizione delle armi nucleari, costruzione della difesa civile, non armata e nonviolenta. Politiche interconnesse, che devono stare in cima alle agende, capaci anche di intervenire nei conflitti, prima che degenerino in guerre, con gli strumenti della prevenzione, della mediazione, della riconciliazione. La pace – come aveva ben chiaro Aldo Capitini – non è raggiungibile attraverso «il blando pacifismo che si è opposto vanamente alle due guerre mondiali» ma solo attraverso la consapevole scelta della nonviolenza. La quale non è una proposta utopistica che prefigura un mondo senza conflitti, ma – al contrario – un metodo per stare dentro ai conflitti, gestendoli in maniera non distruttiva. Ossia l’unico metodo razionale e realistico per dare una chance al futuro di questa e delle prossime generazioni.

[Intervista pubblicata sulla testata Sapereambiente del 29 marzo 2022]


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