Giustizia

Giuseppe Santalucia: «Decreto sicurezza, l’eccesso di diritto penale non rispetta i principi della Costituzione»

Il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione, parla dei due temi caldi sul fronte della giustizia: decreto sicurezza e riforma della magistratura. Le ricadute per i cittadini e i rischi per un sistema che si basa sulla separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario

di Luigi Alfonso

«Il decreto sicurezza tocca tutti i cittadini, senza distinzioni, perché è una risposta fortemente sicuritaria, repressiva, punitiva. Un eccesso di diritto penale. Da un lato si depenalizzano i delitti dei pubblici ufficiali, come l’abuso d’ufficio, e si smussano alcuni strumenti d’investigazione sul versante dei delitti contro la pubblica amministrazione, ponendo al riparo l’amministratore o il pubblico funzionario dal penale; dall’altro si scaraventa sulla cittadinanza, comprese le fasce marginali, un carico di penalità fortemente eccessivo. È l’esaltazione del diritto penale come forma di controllo della società e delle carceri».

Nato a Messina ma catanese d’adozione, il magistrato Giuseppe Santalucia è il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione. A Cagliari nei giorni scorsi per partecipare a un convegno di Area democratica per la giustizia, ha accettato di parlare con VITA.

Il suo collega Gherardo Colombo ci ha detto che la riforma della giustizia dovrebbe partire dall’ultimo segmento, quello ritenuto a torto il più marginale: il sistema penitenziario. Invece accade l’esatto contrario.

Ora è persino previsto il delitto di rivolta passiva all’interno delle carceri. Dunque, il delitto penale diventa uno strumento di governo degli istituti di pena, peraltro in un momento difficilissimo segnato da un sovraffollamento che rende oggettivamente difficile governare la popolazione detenuta. Lo si fa con lo strumento meno adatto, che è la repressione penale. È una filosofia rilevata da tutti i giuristi, non solo dai magistrati ma anche dagli accademici e dagli avvocati. Tutti hanno espresso parole durissime nei confronti di questo decreto sicurezza, perché va esattamente nel senso contrario alla concezione liberale del diritto penale, di cui anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si dice essere un grande fautore e interprete. Alla prova dei fatti assistiamo a un’impennata, a un picco di penalità che non si giustifica.

Difficile trovare un punto d’incontro.

Chiunque dissenta, viene automaticamente iscritto nella categoria del nemico. È un gioco facile. Ma qui non si fa politica, non è uno scontro tra fazioni. I giuristi si esprimono naturalmente sulle questioni giuridiche, secondo una cultura che ci appartiene e accomuna tutti. Siamo formati ormai da 80 anni di Repubblica democratica e da alcuni principi di fondo del diritto penale, a cominciare dal trattamento rieducativo, vale a dire la rieducazione come cifra del trattamento sanzionatorio, che invece sembra totalmente dimenticata a favore di una spinta sicuritaria e retributiva. Questa è la cultura che rende omogenei magistrati, avvocati e professori universitari, al di là di qualche sbavatura dei singoli.

Un tempo si parlava di diritto penale minimo. In soldoni?

In una società liberale che rispetta le sfere della libertà della persona, il diritto penale deve arretrare e intervenire solo quando è strettamente necessario. Oggi abbiamo un abuso del diritto penale perché se ne fa un uso simbolico. Lo stesso fatto che si legiferi aumentando le pene aggravanti e il numero dei reati, mediaticamente dovrebbe avere un effetto rassicurante per la società.

Non tutta la società, considerando per giunta i rischi che ora corrono i comuni cittadini in situazioni che non mettono certamente a rischio la sicurezza.

C’è comunque una parte della società che si sente insicura e, con questo provvedimento, sente il legislatore vicino. Ma non è attraverso un aumento della penalità che si rende più sicura una società. Si deve investire innanzi tutto sulla prevenzione, non sulla repressione.

La maggioranza va in una direzione che, apparentemente, soddisfa la pancia del suo elettorato. Eppure, alle manifestazioni pro Palestina, si contano tantissimi elettori del centrodestra. Insomma, ci sono delle contraddizioni.

È vero, sulla vicenda palestinese la maggioranza degli italiani sembra abbastanza compatta.

Se un cittadino manifesta pacificamente, rischia quanto meno una denuncia e un provvedimento amministrativo. Che si fa?

Se un cittadino desidera manifestare, deve cercare di superare questa piccola barriera che si sta frapponendo: mi riferisco ai controlli identificativi. Come se fosse nella disponibilità delle forze di polizia e del prefetto inibire il diritto di manifestazione del pensiero. Ovviamente, se viene fatto senza atti di violenza o di minaccia. Si sta ingenerando un clima per cui alcune libertà costituzionali sembrano essere, se non in pericolo, quanto meno in discussione. Bisogna difenderle, anche con la pratica. Chi vuole pacificamente manifestare il proprio pensiero, non solo ne ha il diritto ma forse, in questo momento, anche il dovere. Non bisogna cedere a questa sensazione strisciante, per cui alcune cose è meglio non farle perché altrimenti si possono correre dei rischi. In un sistema democratico non esiste proprio.

La platea del convegno che si è svolto a Cagliari

Tutto è perfettibile, anche nella giustizia italiana. Se potesse intervenire in prima persona, che cosa farebbe? È sufficiente un provvedimento simbolico.

Investimenti finanziari, senza dubbio. La giustizia ha bisogno di risorse. Si discute oggi della stabilizzazione degli addetti dell’ufficio per il processo, che sono stati una risorsa che abbiamo messo in campo durante la pandemia con i soldi dei finanziamenti dell’Unione europea, che oggi rischiamo di perdere o di conservare in una misura talmente irrisoria che non potranno più essere un aiuto significativo. Se la giustizia è adeguatamente supportata dalle risorse, può restituire ricchezza al territorio: vale per quella civile come per quella penale. Non è vero che la giustizia è solo un costo: questo ragionamento ha segnato le politiche sulla giustizia per tantissimi anni.

Come accade per la sanità, sempre più allo sbando.

Sì, ma nella sanità a un certo punto si pone il problema della vita o della morte. La giustizia, in qualche modo, è vista come un carrozzone inefficiente o un buco di bilancio. Si parla tanto dei costi delle intercettazioni ma non si dicono quanto essi siano irrisori rispetto ai risultati che si ottengono: pensate al valore dei beni confiscati alla criminalità. Con le migliaia di impiegati degli uffici del processo, abbiamo potuto ridurre di molto il carico dei processi in arretrato e i tempi della giustizia civile e penale. Il lavoro dei magistrati ne ha beneficiato enormemente. Dunque, anche la collettività.

Passiamo a un tema più da addetti ai lavori: la riforma della magistratura.

È una bandiera di alcune delle attuali forze di maggioranza e del governo. Mi riferisco a Forza Italia. Ricordo che alla chiusura del consiglio dei ministri che approvò il testo del disegno di legge, qualche parlamentare di quel partito dedicò quel momento a Silvio Berlusconi. Quindi c’è tutta una storia dietro a questa riforma che è data dai tempi di Mani Pulite ed è, per dichiarazioni espresse da molti autorevoli esponenti di questa maggioranza, la risposta che la politica dà alla giustizia. Una risposta di rivalsa, perché Mani Pulite viene narrata e interpretata come una stagione di giacobinismo giudiziario che ha portato i magistrati a negare il primato della politica, a invadere e comprimere gli spazi della politica. Sono argomentazioni che ci portiamo dietro dagli anni Novanta ma che ritornano frequentemente, se pensiamo al caso del governatore della Regione Liguria di qualche estate fa, che fu messo agli arresti domiciliari per corruzione. Anche lì dissero che la magistratura si voleva sostituire alla politica e non rispettava il voto popolare, e quindi ritenevano immune dal controllo di legalità colui che è espresso dal voto popolare. Tutto un modo di intendere la democrazia che pone una incomprensibilità di fondo in chi, come noi, cerca di interpretare fedelmente i principi costituzionali. Questi ultimi dicono, innanzi tutto, che nessuna istituzione che esprima la sovranità popolare è immune dalla legge. Tutti siamo soggetti ad essa, dunque lo sono anche i parlamentari, ovvero i politici eletti. Questo sta cambiando nel discorso pubblico che si fa intorno alla giustizia: più volte ricorre la tesi secondo la quale, chi è stato eletto, deve poter completare il suo mandato elettorale. Il magistrato che interferisce con le sue indagini, in qualche modo viola la sovranità popolare. È un modo non esattamente corrispondente alla nostra Costituzione e agli stati costituzionali di diritto.

Una tendenza che non riguarda soltanto l’Italia, da un po’ di tempo a questa parte.

C’è una involuzione delle democrazie occidentali. Se alziamo lo sguardo e osserviamo oltre oceano, si intuisce facilmente ciò che intendo. Con il trumpismo, ricorre lo stesso tipo di espressione: chi sono questi magistrati che osano interferire con le scelte del governo? Guardate anche i presidenti dell’Ungheria, della Polonia, del Messico, ora anche la Spagna… si sta assistendo a una involuzione della democrazia liberale, in cui tutte le istituzioni dello Stato (sia quelle elette, sia quelle che sono preposte a compiti di garanzia) devono esprimere la sovranità senza che ci siano subordinazioni o vincoli di reverenza, per usare le parole recenti del ministro Nordio. Si sta spostando questo asse concettuale, ritenendo che in una democrazia costituzionale ci sia chi esprime la sovranità, mentre tutti gli altri devono tacere. Ma questo non è dentro la nostra Costituzione.

Un momento del convegno su decreto sicurezza e riforma della magistratura

Lei ha citato il partito fondato da Berlusconi. Ma oggi la forza dirompente, nel centrodestra, è Fratelli d’Italia.

Forza Italia rivendica la primogenitura di questa riforma, ma gli altri si stanno accodando. Seppure provenienti da culture politiche diverse, probabilmente non colgono il senso di questa riforma. Non si tratta di rafforzare l’autonomia e l’indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri, come ha più volte detto il ministro della Giustizia. Si tratta, piuttosto, di indebolire gli uni e gli altri: si dividono le due magistrature, dividendo l’organo di governo autonomo (il Consiglio superiore della magistratura – Csm) e spogliando il Csm del suo potere tipico, che in tutti gli ordinamenti in cui il governo autonomo della magistratura esprime anche la potestà disciplinare: ora la si assegna a un soggetto terzo e si introduce il sorteggio dei componenti del Csm. Con un messaggio culturale molto chiaro: i magistrati non sono capaci e non devono scegliere i loro rappresentanti perché sono dei burocrati, dei funzionari che devono poter essere rappresentati nei loro interessi impiegatizi, corporativi e di carriera da qualunque altro magistrato, senza possibilità di distinguere l’uno dall’altro. Ciò segna un ripiegamento verso una concezione burocratica del ruolo.

Molti politici sostengono che le ingerenze della magistratura siano andate oltre le sue prerogative.

È una tesi che è espressione di una cultura politica la quale, più o meno consapevolmente, concorre a ridimensionare il potere giudiziario. D’altronde, se si leggono le relazioni illustrative dei disegni di legge costituzionale che furono presentati da alcuni parlamentari del centrodestra (poi abbinati al disegno di legge governativo), si dice chiaramente che bisogna tagliare le unghie al potere giudiziario. Ho usato un eufemismo, perché in verità si parla di un potere che starebbe minando la democrazia e gli assi democratici della nostra convivenza civile. Tutto questo viene vissuto e interpretato come un potere sostanzialmente eversivo.

Numerosi esponenti del centrodestra dicono che la magistratura sia in mano alla sinistra. Dunque, non imparziale nei loro confronti. È davvero così?

I magistrati italiani in tantissimi anni, con tutti gli errori su cui possiamo aprire mille discussioni e anche le autocritiche, hanno rappresentato un presidio di legalità che non ha ceduto a forme di reverenza nei confronti di nessuno.

Però i buoni non possono essere tutti da una parte e i cattivi dall’altra.

Per carità, non mi sognerei mai di dirlo o di pensarlo. Ripeto, errori ce ne sono stati, come accade in tutte le attività umane. Non è un esercizio retorico, lo dico con convinzione: anche la magistratura ha sbagliato. Ma qui non si tratta di punire o premiare i magistrati, semmai di fare una riforma costituzionale che richiede uno sguardo alto e lungo, per guardare oltre le convenienze o i rancori che possono ancora albergare in chi ha vissuto una stagione in cui si è interpretato come vittima. Bisogna avere una statura tale da consegnare a questo Paese un assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato equilibrato.

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