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Economia & Impresa sociale 

Trasparenza e costi di gestione: un argomento da Salone del Risparmio?

di Marcello Esposito

Si apre la prossima settimana, il 26/3/14, a Milano il Salone del Risparmio. Il 2013 è stato un anno di utili record per i gestori e di grande soddisfazione per le banche collocatrici. Ma la domanda da porsi è: sono utili socialmente sostenibili?

Quando il costo medio di un fondo comune commercializzato in Italia raggiunge il massimo storico (1,54% medio! Vedi qui nostro commento ai dati scioccanti pubblicati da Plus la scorsa settimana), la puzza di “predatory pricing” è fortissima. E la rapacità a lungo andare si paga, come mostrano i trend regolamentari (vedi la nuova direttiva europea sui servizi di investimento, la cd Mifid2, in via di finalizzazione), quelli commerciali (con l’ormai consolidato sorpasso nei sistemi di consulenza indipendente degli ETF e dei fondi passivi a basso costo rispetto ai fondi attivi ad alto costo e basse performance) e quelli industriali (con la perdita costante di quote di mercato delle SGR italiane rispetto alle case estere).

Come si fa a capire se un buon risultato economico è effetto di maggiore rapacità o di maggiore soddisfazione del cliente? Basta guardare alla trasparenza della struttura commissionale.

La trasparenza nel rapporto con i risparmiatori si ottiene quando tutti i costi “principali” sono pagati direttamente dal cliente al distributore (cioè la banca). Il risparmiatore medio è in grado di capire i costi associati ad un prodotto finanziario solo se li paga esplicitamente, facendo un prelievo dal suo c/corrente. Non serve a nulla mettere nero su bianco tabelle di costi, rendiconti complicati, …. Il risparmiatore medio non è in grado di capire i dati finanziari, così come il paziente medio non è in grado di comprendere dal bugiardino se quella medicina gli fa bene o gli fa male.

Se invece i costi sono incorporati nella struttura del prodotto (ad esempio, nella forma di un prezzo d’acquisto sfavorevole o di commissioni che vengono prelevate in automatico dal prodotto e ne sminuiscono gradualmente il valore, … ), allora la trasparenza si sostituisce l’opacità e il rischio di predatory pricing aumenta.

Questo approccio è assolutamente chiaro alle autorità inglesi, che hanno imposto dal 2013 che i produttori (le società di gestione) non possano versare un quattrino (le retrocessioni) ai distributori (le banche) per i prodotti (i fondi) che queste ultime collocano ai loro clienti (i risparmiatori). Se i distributori vogliono svolgere un servizio di consulenza, devono farsi pagare esclusivamente dal cliente. In questo modo, in Inghilterra la pratica della consulenza finanziaria è stata allineata alla pratica delle forme più consolidate di consulenza. Sarebbe strano se l’avvocato che mi sta seguendo nella pratica automobilistica si facesse pagare oltre che da me anche dall’assicurazione, vero? Sarebbe strano se l’architetto a cui chiedo di ristrutturare l’appartamento si facesse pagare oltre che da me anche dai muratori a cui affida l’incarico, vero?

Questo approccio è un po’ meno chiaro a Banca d’Italia e a Consob che lo hanno applicato solo dove era strettamente richiesto dall’Europa, quindi alla consulenza indipendente (non me ne vogliano i pochi coraggiosi, ma ad oggi inesistente o quasi in Italia), alle gestioni patrimoniali ma non ad esempio alla consulenza finanziaria svolta dalle banche. Con la Mifid 2, grazie a Bruxelles, forse tra qualche anno anche i risparmiatori italiani, quando si recheranno in banca, potranno godere delle stesse tutele di quelli inglesi; per ora, devono sperare di incontrare lo sportellista giusto.

Per non rimanere sempre a parlare dei massimi sistemi, vorrei illustrare un caso che riguarda l’innovazione nella struttura delle commissioni di collocamento di una importante famiglia di fondi comuni da parte di una delle maggiori SGR italiane. Non ho fatto una ricerca per vedere quante SGR abbiano introdotto questa innovazione e chi sia stata la prima a farlo. Visto che la SGR in questione appartiene ad un gruppo bancario di cui sono cliente, ho avuto la “fortuna” di ricevere a casa la pubblicità e da lì ho poi approfondito.

Per capire il punto, devo ricordare che nei fondi comuni (non negli ETF) la tradizionale struttura dei costi attribuibile direttamente alla società di gestione è composta di tre tipi di commissioni:

a)      Le commissioni di sottoscrizione (una % dell’ammontare investito, es. il 5%, pagato subito al momento dell’acquisto del fondo prima che le somme vengano investite nel fondo)

b)      Le commissioni di gestione (una % del valore dell’ammontare investito, es. l’1%, pagato giorno dopo giorno e prelevato direttamente dal fondo per tutta la durata dell’investimento)

c)       Le commissioni di performance (una % dell’extra-rendimento ottenuto dal gestore, pagate solo in caso di extra-rendimento e prelevate direttamente dal fondo)

Le prime sono tradizionalmente retrocesse completamente al distributore, le seconde sono divise tra distributore e gestore (strano, vero?) e le terze sono del gestore.

Le commissioni di sottoscrizione nascono agli albori dell’industria dei fondi, come una sorta di quota di iscrizione al “club”. E’ noto però che da parecchi anni le commissioni di sottoscrizione nessuna banca riesce più a farsele pagare. Le commissioni di sottoscrizione sono infatti un costo “trasparente” che il cliente paga al momento dell’acquisto del fondo. Il cliente le percepisce chiaramente come un costo, forse come l’unico costo che grava sul fondo. Ricordo che una volta, dovendo assistere mia suocera che non si fidava ad andare da sola ad investire in banca, un solerte consulente agli investimenti dichiarò che il fondo (era un monetario) non aveva costi, perché lui ci stava scontando a zero le commissioni di sottoscrizione. Alla mia domanda, “ma come è possibile che non ci siano costi, ci saranno delle commissioni di gestione?”, lui rispose che quelle non erano un costo perché erano a carico del fondo, non a carico di mia suocera! Fu un colloquio più illuminante di qualsiasi corso di behavioural finance.

Ebbene, qualche product developer particolarmente creativo ha trovato il modo di resuscitare le commissioni di collocamento per una particolare categoria di fondi, quelli a “finestra”, molto popolare in questi ultimi anni. Come ha fatto? Si è inventato le commissioni di collocamento a carico del fondo e prelevate da quest’ultimo subito dopo l’accreditamento delle somme investite. Sono cioè delle commissioni addebitate al cliente non direttamente al momento dell’acquisto ma indirettamente attraverso la decurtazione progressiva del valore del fondo. Le commissioni vengono in ogni caso girate alla banca contestualmente alla sottoscrizione, ma in questo caso sono prelevate dopo essere state investite nel fondo e poi ammortizzate. Il cliente medio in altre parole non se ne accorge.

Si tratta però di una aberrazione. E, infatti, non è possibile applicarle sui fondi comuni normali (e mi auguro che nessuno lo abbia fatto) perché per mascherarne l’impatto sulle performance del valore quota del fondo è necessario prevedere un lungo periodo di ammortamento, in assenza del quale si genererebbero disparità di trattamento, performance determinate arbitrariamente dai flussi di sottoscrizione, …  L’unico caso in cui è possibile applicarle è appunto quello dei fondi collocati a finestra, quelli cioè dove c’è un periodo, in genere  molto breve, di raccolta e poi il fondo viene chiuso a nuove sottoscrizioni e gestito senza ulteriori ingressi fino ad una data pre-specificata. Applicando l’ammortamento sul intero orizzonte di vita utile del fondo, di fatto l’impatto finale è equivalente ad un innalzamento sostanziale delle commissioni di gestione.

In realtà, l’effetto finale però non è solo quello di un livello più elevato di commissioni di gestione, mascherato e opacizzato da questa strana struttura commissionale. Il fatto di girare parte di queste commissioni subito in una unica soluzione alla banca distributrice e l’ammortamento graduale nel tempo introducono una forma di pre-conto. Solo che nelle forme tradizionali di pre-conto, è la SGR a dover mettere a disposizione il suo bilancio per anticipare alla banca la quota concordata di commissioni di gestione. In questo modo, invece, è il fondo che pre-conta, mettendo a garanzia il suo patrimonio (che è poi dei clienti). E così anche Banca d’Italia è contenta, perché la struttura patrimoniale delle SGR non è influenzata dal pre-conto.

Chi ci rimette è il risparmiatore retail “inconsapevole”, che si vedrà caricare su un fondo quasi-obbligazionario delle commissioni da far impallidire un hedge fund. Quale l’impatto sul rendimento del fondo di un carico commissionale così elevato? Basta guardare al benchmark di questi fondi a finestra per intuire la soddisfazione del cliente tra 4 o 5 anni quando sarà terminata la vita utile del fondo. Ma 4 o 5 anni di questi tempi sono una eternità. Intanto, la prossima settimana c’è il Salone del Risparmio e  l’industria potrà festeggiare il suo (insostenibile) record: 1,54% di costo medio!


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