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Economia & Impresa sociale 

Agar cammina ancora tra noi

di Marcello Esposito

Agar era la schiava che Sara offrì ad Abramo per donargli un figlio, Ismaele. Agar è forse la prima madre surrogata della storia e non è un caso che fosse una schiava. Sono passati quattromila anni, ma gli interrogativi etici e morali non sono poi così cambiati da allora. Michael Sandel e Elizabeth Anderson (vedi ad esempio qui) li hanno chiariti ed esposti in termini moderni, ricorrendo alla categoria della “mercificazione” della donna e del bambino, indipendentemente si badi bene dalla natura “omo” o “etero” della coppia committente. Nella maternità surrogata il rapporto tra le parti è, infatti, regolato da un contratto commerciale. L’oggetto del contratto è un essere umano, che viene ceduto dalla madre alla coppia che l’acquista. Poco importa a tal proposito che uno degli acquirenti sia il padre biologico. In questa tipologia di contratti, si contempla anche il caso in cui il seme sia di un soggetto terzo, anonimo. Nel rispetto delle clausole contrattuali e dietro il pagamento di un corrispettivo in denaro, le controparti agiscono perseguendo esclusivamente il proprio interesse personale. Esattamente l’opposto di quello che la comunità umana si auspica accada tra un uomo e una donna nel momento in cui concepiscono un figlio. Non è retorica l’affermazione per cui l’unico metro moralmente corretto per valutare un bambino non è il denaro ma solo ed esclusivamente l’amore. Gli aspetti più riprovevoli della maternità surrogata emergono infatti quando qualcosa va storto e le parti decidano di non rispettare gli impegni contrattuali in merito alla consegna o alla accoglienza del bambino. E’ in questi casi estremi che si comprende il significato del concetto di mercificazione degli esseri umani, con la donna trasformata in “macchina” e il bambino in “merce”. E’ in questi casi che si capisce la potenza dell’amore e il delitto che si commette sostituendolo con il denaro. Negli USA, dove la maternità surrogata è consentita, è dovuta intervenire la Corte suprema del New Jersey per consentire ad una madre di mantenere il rapporto con il suo bambino (vedi qui). Senza voler idealizzare la maternità, a ben vedere la cosa più orrenda che emerge da questa penosa vicenda è che un contratto come quello di maternità surrogata, per essere eseguito, presupponga che la madre reprima il naturale legame affettivo con la creatura che porta in grembo. Si trasformi cioè da persona a incubatrice biologica. Ma ancora peggiore è il caso in cui la coppia committente si rifiuti di adottare il bambino. Il che può accadere se il bambino è malato o disabile. In questo caso il bambino rimane con la madre o viene istituzionalizzato. Senza andare in America o in qualche paese sottosviluppato, ecco qui e qui cosa succede nella civile Europa. La maternità surrogata è vietata in Italia e, a parere dello scrivente, è assolutamente condivisibile l’appello dell’associazione “Senonoraquando” di metterla al bando in Europa e nel Mondo (si trova qui ). D’altro canto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea all’articolo 3 prevede: “il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro”. E all’articolo 5 si stabilisce che “è proibita la tratta degli esseri umani”. Basterebbero quindi gli articoli 3 e 5 per proibire: ad una donna residente in un paese dell’Unione Europea di mettere a disposizione per denaro il proprio apparato riproduttivo; ad una coppia residente in un paese dell’Unione Europea di sottoscrivere un contratto commerciale in cui paga per la consegna di un essere umano. Ma è l’articolo 24 che dovrebbe rendere nullo qualunque contratto di maternità surrogata nella Unione Europea, laddove afferma che: “Ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.” Come fa un contratto privato a negare un inalienabile diritto fondamentale dell’uomo? Su una questione così importante non si può invocare l’opportunismo politico, soprattutto da parte di chi sta combattendo una battaglia per i diritti della persona.


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