Cooperazione & Relazioni internazionali

L’Europa deve dire no ai minerali insanguinati

di Cecile Kyenge

Un anno fa, il Parlamento europeo si era espresso contro i “conflict minerals”, i minerali insanguinati provenienti, tra l’altro, dalle zone di conflitto nel cuore dell’Africa. Ma non tutti hanno salutato con favore la volontà della maggioranza di deputati europei di introdurre la tracciabilità obbligatoria per le imprese dell’UE che importano stagno, tungsteno, tantalio e oro – minerali presenti in aree di conflitto – nella fabbricazione di prodotti di consumo. Sono in effetti contrari la lobby delle grandi multinazionali europee e alcuni Stati membri ad un progetto di regolamentazione che, in caso di approvazione, romperebbe il legame tra lo sfruttamento illecito di minerali utilizzati in apparecchiature elettroniche e il finanziamento di gruppi armati.

Il voto del Parlamento Europeo è stato figlio dell’iniziativa politica e della campagna straordinaria portata avanti dal Gruppo dei Socialisti & Democratici europei, nella quale mi sono impegnata in prima linea, in sintonia con l’impegno di tante organizzazioni della società civile europea.

Non tutti i lettori di questo blog lo sanno, ma smartphone, telefoni cellulari, tablet, pc e molti altri dispositivi elettronici che utilizziamo ogni giorno sono beni di consumo a volte composti da cosiddetti “minerali dei conflitti”, ovvero minerali estratti sotto il controllo di bande armate e signori della guerra che sfruttano le popolazioni locali e le pongono in condizioni di schiavitù per finanziarsi con il loro commercio. Ora, l’UE è uno dei maggiori “consumatori” di portatili e cellulari al mondo, quindi uno dei più grandi importatori di stagno, tantalio, tungsteno e oro, in forma grezza o concentrata, tutti i minerali grazie ai quali molti beni di consumo elettronici vengono prodotti.

Secondo i dati pubblicati da molte organizzazioni, ed in particolare la piattaforma delle ong cattoliche italiane, FOCSIV, “negli ultimi 40 anni, circa il 60% dei conflitti armati ha avuto una qualche connessione con l’approvvigionamento e il commercio di risorse naturali, permettendo il finanziamento di diversi gruppi armati colpevoli di violenze contro la popolazione locale”. E l’Africa detiene il 30% delle risorse minerarie mondiali. Nella Repubblica Democratica del Congo, l’attività estrattiva dei minerali e la loro commercializzazione hanno contribuito a generare conflitti armati che hanno causato la morte di quattro milioni di persone e costretto altri millioni di uomini, donne e bambini a lasciare la propria terra oppure a vivere in condizioni di vera e propria schiavitù. Quando parliamo di agire sulle cause profonde dell’immigrazione dobbiamo parlare anche di questa immensa tragedia.

Non potrò mai scordare la disperazione che ho letto negli occhi dei bambini-schiavi incontrati lo scorso anno in una miniera di coltan durante una missione in RDC che mi ha portata nel Kivu, dove assieme al presidente del Gruppo S&D, Gianni Pittella, abbiamo voluto toccare con mano l’impatto devastante dei minerali insanguinati sulla popolazione congolese. Cito il Congo, ma si potrebbe citare ugualmente la Repubblica Centrafricana, la Liberia, il Sudafrica, la Sierra Leone… la situazione non cambia. I minerali di conflitto pervadono l’Africa.

Dopo l’approvazione nel maggio 2015 al Parlamento europeo di un emendamento che, rispetto alla proposta iniziale della Commissione UE, introduce la tracciabilità obbligatoria anziché volontaria per le imprese europee che importano minerali da zone di conflitto, il dossier è passato nelle mani del cosiddetto Trilogo, una procedura informale attraverso la quale Parlamento, Commissione e Consiglio negoziano un testo comune. Dall’1 febbraio sono in corso trattative a porte chiuse che coinvolgono le tre istituzioni europee e in cui alcuni Stati membri si stanno opponendo con forza al dovere di diligenza da parte delle multinazionali europee, peraltro previsto nelle linee guida adottate dall’OCSE nel 2011 per le imprese che operano nella filiera dei minerali provenienti da zone di conflitto.

Noi abbiamo chiesto con quel voto di un anno fa che la legislazione europea preveda la certificazione obbligatoria della provenienza dei minerali. Per quanto tempo dovremo ancora negoziare? Un anno mi sembra abbastanza. L’Italia deve fare propria questa battaglia e contribuire il più presto possibile all’adozione di una regolamentazione in grado di rompere con le logiche infernali dei minerali di conflitto. Lo deve fare cercando di rassicurare le nostre piccole e medie imprese, che temono una legislazione vincolante perché più deboli rispetto alle multinazionali nella facoltà di applicare misure che rendono la tracciabilità obbligatoria.

Per fortuna non siamo soli. A Bruxelles possiamo contare sul sostegno di organizzazioni delle società civile come EurAc, CIDSE, Amnesty International, Rete Pace per il Congo, Justice et Paix  o Global Witness, assieme alle quali il gruppo S&D moltiplica le campagne d’informazione (clicca qui per vedere il nostro video). Nelle prossime settimane porterò in Italia questa battaglia da cui dipende la vita di milioni di essere umani in Africa e responsabilizza milioni di consumatori in Europa. E’ una battaglia di civiltà che non possiamo permetterci di perdere.


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