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Lasciamo stare la serendipità

di Flaviano Zandonai

Quelli di Nesta sono proprio bravi. Probabilmente il miglior think tank europeo sull’innovazione sociale. Sono bravi perché azzeccano sempre il tema giusto al momento giusto. Il giorno prima che diventi di dominio pubblico, come quando un anno fa hanno aperto un programma di ricerca sulle competizioni per l’innovazione, affrontando il tema anche in chiave storica e così scoprendo che l’assegnazioni di premi per idee innovative e in senso lato “sociali” è tutt’altro che una novità. Ad esempio già a fine 800 in Inghilterra su lanciata una competizione per trovare un materiale con cui sostituire l’avorio per fare le palle da biliardo. Ma non basta anticipare un tema che sta per diventare “the next big thing” come nella pop music. Bisogna anche scovare tematiche che dopo un periodo di obsolescenza e di declino possono diventare interessanti se rilette da altri punti di vista. E anche in questo caso Nesta colpisce ancora: basta leggersi i loro contributi su un tema classico, soprattutto in ambito non profit, come il lavoro di comunità. Per non parlare delle loro previsioni – 13 per l’anno 2013 – appena pubblicate.

Ma, si sa, anche i più bravi non l’azzeccano sempre e spesso capita che lo scivolone avvenga su un tema apparentemente banale. Qualche giorno fa, infatti, è stato pubblicato un post sul sito di Nesta che rendicontava una loro micro iniziativa, di successo naturalmente. Un ciclo di incontri tra membri del loro staff caratterizzati dall’assoluta informalità, anzi dall’archetipo dell’informalità: prendere un caffè insieme discutendo di temi “fuori ordine del giorno”. Una ricerca – informale pure quella – ha messo in luce i benefici dell’iniziativa: confrontarsi su temi non predefiniti e non con i soliti colleghi favorisce la creatività, rompe i comparti stagni (che a quanto pare esistono anche nelle organizzazioni più innovative), allarga e differenzia le reti collaborative.

Tutto bene quindi? Non direi, proprio nella misura in cui si tende, come recita il titolo del post, a istituzionalizzare la serendipità ovvero a trattare in chiave si sistema organizzativo processi che invece hanno senso e sono efficaci perché, come diceva Crozier (se non ricordo male), sono interstiziali. In altri termini la serendipità – trovare cose nuove cercandone altre – è tale proprio perché è deregolamentata. Eppure non solo le organizzazioni come Nesta ci provano: da almeno vent’anni a questa parte si è apera una caccia grossa al pensiero laterale, alla conoscenza tacita, ai network informali. Una caccia non per sopprimere queste pratiche come poteva avvenire nelle grandi burocrazie di origine militare, ma per catturare risorse preziose proprio perché non sono codificate. Di solito si usano due esche: la tecnologia – basti pensare all’armamentario “social” del web 2.0 finalizzato a saccheggiare la preziosa informalità degli stakdeholders chiave: lavoratori e users – e gli incentivi. Il caso di Nesta è emblematico proprio di quest’ultimo approccio: strutturare networking creativi con la scusa di un caffé.

Qualche giorno fa @paoloventuri100 mi ha girato articolo scritto da due giovani economisti: Natalia Montinari e Marco Piovesan* che analizza in modo leggero e approfondito (le due cose non sono incompatibili) il tema degli incentivi nelle organizzazioni. Lo fa come il bugiardino dei farmaci, ovvero invita ad utilizzarli nelle dosi consentite, altrimenti il rischio è di sovraccaricare i sistemi relazionali che guidano i processi produttivi. Ecco, cercare di istituzionalizzare la serendipità sa molto di sovradosaggio.

* Ai più curiosi invierò volentieri l’articolo citato.


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