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Politica di processo

di Flaviano Zandonai

Disaffezione dalla politica? Quando mai? Fioriscono a destra e a manca (e anche altrove) manifesti, petizioni, progetti normativi, agende, piattaforme d’opinione, ecc. (come quella di Vita peraltro). Attività di policy making che certamente risentono dell’imminente scadenza elettorale ma non solo. E’ l’onda ormai lunga della crisi a spingere le persone ad aggregarsi intorno a proposte che, in uno modo o nell’altro, reclamano cambiamento. E sono i social media che consentono ai contenuti di propagarsi con molta più velocità: clicchi su like per aderire a un manifesto, accedi a un file wiki per costruire un programma, ti colleghi a un incontro con hangout. E se non bastasse si può aderire a un GAST: Gruppo di Acquisto Spazi Televisivi che organizza incontri elettorali trasmettendoli per il caro vecchio broadcast del digitale terrestre (precisamente il canale 135). Un momento di grande effervescenza che, se ce ne fosse bisogno, dimostra come i luoghi della politica poco coincidono con quelli istituzionali alimentando così uno spread di legittimità in costante (e preoccupante) crescita.

In questo mare magnum di proposte a fare la differenza non sono però i contenuti. O meglio, affinché questi ultimi siano più efficaci e convincenti conta un altro aspetto, cioè il processo attraverso cui le proposte vengono formulate e diffuse. Si tratta di un discrimine qualitativo sempre più rilevante a fronte di un’offerta politica – lo so sembra strano a dirsi ma è così – sempre più ricca e variegata. Due sono le fasi di processo più rilevanti. La prima a monte della definizione dei contenuti e riguarda il modo in cui persone e organizzazioni danno vita a una sorta di “intelligenza collettiva” da cui scaturiscono, anche in forma grezza, conoscenze, aspirazioni, bisogni che sono sintetizzabili in proposta. Una panacea contro la deriva tecnocratica dei policy makers spinti a combinare e ricombinare elementi di contenuto ma senza riscontri che non siano quelli a corto raggio delle elite di partito o delle organizzazione di rappresentanza. Non è solo questione di numeri, perché per fare massa critica serve anche identità, cioè riconoscimento di sé come corpo unitario alleato o in contrapposizione ad altri. La seconda fase riguarda invece gli effetti delle proposte di policy, le esternalità che generano a seconda di come vengono formulate in un determinato arco di tempo e rispetto a un particolare soggetto. Certamente non tutto può essere valutato in un’ottica di impatto delle politiche. Sono troppe le variabili in gioco, ma uno sforzo almeno per individuare le principali andrebbe fatto. Pena il rischio di veder disseminato di “imprevisti” il percorso di implementazione.

Un esempio a caso: la norma sull’impresa sociale. L’emendamento “mordi e fuggi” inserito nella legge di stabilità ha messo bene in luce la necessità di un percorso, lungo e anche faticoso ma ugualmente necessario, per consolidare una piattaforma non di rappresentanza ma di dialogo tra le diverse espressioni e i diversi approcci al tema. Considerando sia quelli maggiormente strutturati e istituzionalizzati sia quelli emergenti e che non possono far valere “il peso dei numeri”. Allo stesso modo è necessaria più attenzione, più dati più ricerca, sulle condizioni di contesto e sugli effetti che le innovazioni proposte possono apportare. Il vincolo alla distribuzione degli utili che in alcuni casi è visto come un limite insormontabile allo sviluppo, in altri casi è considerato un asset imprenditoriale. L’attrazione di risorse finanziare vista come elemento cardine nel desing delle nuove startup sociali è poco o nulla considerata in altri frangenti. Considerare questi e altri aspetti in un’ottica processuale aiuterebbe a tracciare un perimetro generale all’interno del quale ognuno possa poi intraprendere il proprio percorso.


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