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Il censimento di traverso

di Flaviano Zandonai

Prendiamo per buona l’ipotesi che il nuovo Censimento Istat su industria e servizi consenta una lettura d’insieme della società italiana guardando alle sue istituzioni: amministrazioni pubbliche, istituzioni non profit, imprese. E proviamo a individuare temi di interesse comune, dai quali possano scaturire politiche e progettualità utili a dare consistenza a un “sistema paese” che l’istituto nazionale di statistica definisce in fase di “profonda trasformazione”. Trasformazione che peraltro è di medio periodo (un decennio), coinvolgendo, ma solo in parte, gli anni della crisi. Non è quindi l’effetto dello shock attuale, ma di dinamiche di mutamento ben più profonde. Tutto ciò considerando l’angolatura del non profit, non per scelta di campo o di linea editoriale, ma semplicemente per il fatto che si tratta del settore che più di tutti esercita un effetto traino su economia e società italiana.

1) L’offerta aggiuntiva di beni pubblici. I dati del Censimento evidenziano l’effetto sostitutitivo del non profit rispetto alla Pubblica Amministrazione per quanto riguarda la capacità di offerta e non solo di aggregazione della domanda. In parole povere la crescita del non profit sembrerebbe derivare da un dimagrimento della PA. La questione non è di poco conto perché riguarda il contributo delle organizzazioni non lucrative: fattore di efficientamento low cost dell’offerta pubblica o innovatori nella produzione di beni di interesse collettivo? Questo è lo spazio, molto ampio, per interventi e misure di impatto che riconfigurano il ruolo del settore non profit e, più in generale, il modello di protezione sociale.

2) Il contributo a una società imprenditoriale. Il censimento offre molti spunti interessanti anche per quanto riguarda il tessuto imprenditoriale. Emergono aspetti interessanti: sull’anagrafica degli imprenditori – non così giovani e spesso con alle spalle esperienze di lavoro alle dipendenze – e sulle caratteristiche organizzative che vedono prevalere modelli di governance “familistica” con una scarsa propensione a sviluppare un sistema di management adeguato. In questo senso sarà interessante valutare il contributo non profit all’imprenditoria anche perché si tratta di una parte minoritaria sì, ma molto dinamica. Un modello di impresa, quello non profit, a base collettiva e basato su sistemi di governance aperti al contributo di diversi portatori di interesse. Dunque un potenziale elemento di diversificazione e cambiamento.

3) Tra redistribuzione e investimento. C’è poi un aspetto molto specifico dello stesso non profit, ovvero il ruolo della filantropia che è il best performer per capacità di mobilitare risorse umane sia a titolo volontario che retribuito. L’impressione è che questo dinamismo sia riconducibile anche a un cambio di passo nel modo di interpretare la missione dei soggetti che ne fanno parte (fondazioni soprattutto), qualificando l’azione filantropica e sviluppando una capacità di investimento che inevitabilmente si concentra su organizzazioni di taglio imprenditoriale.

Dove si osservano queste dinamiche trasversali? Il censimento è prodigo di suggestioni anche da questo punto di vista grazie a una semplice tabella che accosta profit e nonprofit in settori di attività ad elevato “valore aggiunto sociale” (cultura, sanità, assistenza,  ecc.). Interessante da questo punto di vista guardare non solo agli ambiti dove il nonprofit prevale nettamente come ad esempio lo sport. Meglio considerare situazioni più di nicchia ma anche più equilibrate, come ad esempio la fornitura di servizi idrici, il più classico dei common nell’immaginario collettivo. Si gioca anche lì la partita di una “competizione cooperativa” tra attori diversi, come ricorda Luca De Biase nella sua rubrica sul numero di Vita ora in edicola. Competizione per il bene comune.


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