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Welfare & Lavoro

L’innovazione di Marco Cavallo

di Flaviano Zandonai

Molte innovazioni hanno il loro mito fondativo. Nel caso dell’impresa sociale si tratta di un cavallo. Ben diverso da quello di Troia, quasi l’opposto: quest’ultimo entrava dentro le mura cittadine con in pancia guerrieri pronti a distruggere. Quello dell’impresa sociale, invece, in pancia aveva messaggi di libertà e i muri li sfondava per uscire. Esattamente quarant’anni fa – davvero un bell’anniversario da ricordare – si realizzava l’epopea di Marco Cavallo. Una performance artistica avvenuta nel manicomio di Trieste grazie a un gruppo di artisti che coinvolgendo le persone recluse hanno costruito un cavallo che poi hanno portato in giro per la città, quasi in processione.

Il mito è stato giustamente rinverdito dalla rivista online Doppiozero che ha ripubblicato un bell’editoriale di Umberto Eco apparso sul Corriere della Sera dell’epoca. Una lettura utile e tutt’altro che fine a se stessa. Marco Cavallo ha ancora molte cose da dire, in particolare sul tema tanto di moda dell’innovazione in campo sociale.

In primo luogo l’innovazione, quella radicale, non è solo generativa ma distruttiva. Con l’uscita del cavallo dal manicomio finiva un modello di servizio e ne iniziava un altro incarnato da una nuova forma organizzativa e d’impresa. Il passaggio non è stato indolore – si pensi cosa ha significato chiudere in tempi relativamente rapidi strutture come quelle manicomiali, anche solo in termini economici e occupazionali – e infatti c’è stato bisogno di un’azione a forte valenza simbolica e di rottura. Una produzione artistica che fa da medium per il cambiamento. Uno strumento che ancora viene usato da organizzazioni nonprofit e imprese sociali per segnare le discontibuità e i cambi di paradigma, come nel caso dei processi di riuso dei beni confiscati.

In secondo luogo Marco Cavallo apre la porta a un processo di costruzione di nuove istituzioni. Da lì sono nate decine di migliaia di imprese impegnate, nei più svariati settori di attività, a produrre beni di interesse collettivo. Lo hanno fatto soprattutto costruendo relazioni di mercato con l’istituzione che tradizionalmente persegue le stesse finalità: l’ente pubblico (locale). Un percorso ambivalente e che oggi richiede di essere rigenerato, non solo perché c’è la crisi, ma anche perché i modelli di servizio non sono più al passo con i tempi, o meglio con i bisogni espressi dalle persone e dalle comunità.

Bisognerebbe riportare in giro Marco Cavallo (cosa che già avviene peraltro) per capire come si può avviare un nuovo ciclo di innovazione nell’impresa sociale, seguendo almeno tre strade.

– Ricostruire i contesti: l’innovazione, soprattutto sociale ma anche tecnologica, è positivamente influenzata dalla prossimità di soggetti che co-operano assumendosi il rischio di innovare.

– Cercare l’innovazione dormiente nelle frange delle organizzazioni istituzionalizzati, investendo risorse per farla crescere e generare cambiamento dall’interno.

– Promuovere (o partecipare) nuove forme d’impresa che si fanno carico di innovare in profondità prodotti e processi.

Per fare questo, oltre al cavallo, bisogna munirsi di un setaccio per drenare organizzazioni e contesti. Un setaccio, per essere efficace, ha bisogno di una maglia composta da una parte dall’innovazione che si va cercando (incrementale o totale?) e dall’altra da alcuni focus che riguardano i processi innovativi: il modo in cui si leggono i fenomeni socio economici su cui si vuole intervenire, la disponibilità a mattere mano al design dei beni e dei servizi e infine ai sistemi adottati per misurare l’impatto. Un lavoraccio, come i cercatori d’oro con l’acqua fino alle ginocchia e l’obiettivo di scovare anche solo una pagliuzza.


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