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Il territorio in prospettiva multilocale

di Flaviano Zandonai

La crisi – oltre che della politica, dell’economia, del welfare, dell’ambiente, ecc. – è anche dei territori. Ovvero di quegli spazi dove si addensano relazioni che mischiano mercato, reciprocità, tradizione, empatia. Uno dei punti di caduta di questa crisi riguarda i network dell’impresa sociale, imprese che, quasi tutte, sono locali per eccellenza. Queste reti sono alle prese con un lunghissimo travaglio che dovrebbe trasformale da strutture di supporto che lavorano nel retroscena, a porta di accesso per un sistema realmente integrato di beni e servizi di interesse pubblico. Porta aperta a una pluralità di soggetti: dai singoli cittadini, alle imprese, alle pubbliche amministrazioni. Veri e propri access point per la produzione e la fruizione di beni comuni.

Le difficoltà di questo passaggio sono di vario tipo: congiunturali perché legate alle diverse condizioni di contesto ed anche strutturali perché il modello di business delle imprese che ne fanno parte è in crisi. Ma i problemi sono anche di senso, legati cioè alla progressiva perdita di presa dei paradigmi fin qui adottati per interpretare ciò che definisce “il territorio”. Un recente articolo apparso la settimana scorsa su La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera, propone una nuova chiave di lettura, definita in una parola che, a differenza di altre, non è ancora oggetto di una logorante retorica. La parola in questione è multilocalismo.

Il multilocalismo, secondo Carlo Bordoni autore del pezzo e co-editor di alcune pubblicazioni di / con Bauman in Italia, si definisce in due accezioni che lo antepongono allo strapotere del suo concetto concorrente, quello di globalizzazione. In un primo significato, il multilocalismo fa riferimento alla capacità di persone e organizzazioni di operare fianco a fianco di culture e identità diverse. Una capacità di coabitazione quindi. In una seconda accezione, strettamente correlata, multilocalismo significa capacità di operare (anche simultaneamente) in luoghi distanti e diversi, valorizzandone le peculiarità. Un adattamento proattivo che si contrappone al piattume del globale senza confini. Il risultato? Una maggiore capacità di contribuire a generare ed estrarre valore dalle relazioni. O, citando l’autore: “Il multilocale è il prodotto del desiderio di cambiare e dell’esigenza di accogliere il cambiamento (…) si sostituisce al globale perché difende l’individualità e il diritto di mantenere un legame non con un solo luogo, ma con più luoghi tra loro interagenti, che rappresentano il nostro essere, la nostra idea di mondo. Dunque un globale frazionato e a misura d’uomo”.

Se la chiave di lettura è convincente, allora si può ri-guardare ai territori attraverso essa, individuando e riclassificando i soggetti che vi operano. Una nuova mappatura non fine a se stessa ma utile a individuare potenziale inespresso, anzi compresso dentro contesti vittime – come le reti di impresa sociale – di una deriva localistica. Chi sono dunque i player del multilocalismo? Eccone una breve rassegna, tra conferme e sorprese.

Le imprese che multilocalizzano le loro reti di produzione e di vendita, anche se si tratta di beni e servizi legati a un ben preciso contesto di origine. Il “made in Italy”, ormai, viene prodotto in buona parte in luoghi dove evidentemente si sono trovate condizioni ambientali assimilabili a quelle nazionali. Non è solo questione di costo del lavoro inferiore. Tanto che se queste condizioni non si trovano o si perdono, queste imprese riportano la produzione nei luoghi di partenza.

– Le imprese innovative che lavorano su tecnologie tipicamente globali (le risorse internet), ma che per aver successo devono comunque sintonizzarsi su bisogni che, in molti casi, hanno una dimensione di specificità. Devono in altri termini essere riportate a terra interagendo con dinamiche locali. E’ questa la sfida di incubatori e hub che sono parte di reti internazionali e che promuovono iniziative d’innovazione scalabili, una volta tanto, anche verso il basso.

– Gli attori della finanza che dopo aver contribuito ampliare i processi di globalizzazione, ora si accorgono che servono sensibilità particolari per cogliere le peculiarità e le risorse presenti nei diversi contesti di insediamento. Non a caso alcuni grandi e medi gruppi bancari rispolverano l’appeal da “banca del territorio”, sfidando tutti quegli attori che nel locale hanno identificato la loro missione e che oggi vorrebbero replicare a più ampio raggio (banche di credito cooperativo).

– Agenzie di supporto che hanno il compito di accompagnare le imprese, a questo punto non a globalizzarsi ma a multilocalizzarsi. Fare scouting dei territori per trovare quelli più favorevoli allo sviluppo è un compito raffinato che, ad esempio, chiama in causa Camere di commercio transnazionali e altre strutture simili.

– Organizzazioni non governative che operano sia attraverso processi di retrofit innovation grazie ai quali riportano “a casa” modelli di servizio sperimentati in altri contesti come fanno, ad esempio, alcune organizzazioni non governative italiane con i servizi sanitari. D’altro canto questi stessi soggetti possono operare, con tutte le ambivalenze del caso, come piattaforme che svolgono una funzione come quella descritta in precedenza, ovvero favorire l’insediamento di iniziative d’impresa grazie alla loro capacità di “leggere i territori” come ben illustra questo rapporto di Mckinsey.

– Imprese comunitarie che hanno la capacità di incorporare elementi di valore condiviso su scala locale, rendendo così i territori più attrattivi anche per la loro infrastrutturazione sociale e ambientale.

Può essere uno schema da cui ripartire. Perché fra le moltissime bad news di questa fase così difficile, una in particolare mi ha messo di cattivo umore, ovvero che non ci sono più regioni italiane nella classifica dei territori più competitivi d’Europa. Rischiamo di rimanere ai margini anche della partita multilocale. E per questo sono interessanti tutte le iniziative che tentano di rigenerare i territori dentro questo nuovo paradigma. Il programma di Pistoia città del social business è una di queste. Altre saranno più che benvenute.


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