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Welfare & Lavoro

Bottom line in rosso

di Flaviano Zandonai



“Tirare le somme” è un espressione tipica del pragmatismo imprenditoriale. Ma c’è più di una sommatoria da considerare. Per dirla con l’ennesima espressione inglese, c’è più di una bottom line a cui guardare per misurare il successo imprenditoriale. Non solo il conto economico, ma anche il valore delle relazioni sociali e del rispetto ambientale. Double e triple line, con la solita dinamica che vede l’imprenditoria for profit (e le istituzioni pubbliche) elaborare schemi di analisi e pratiche di management che si pongono in competizione con le imprese sociali che queste dimensioni incorporano come elemento costitutivo.

Ma al di là del dibattito sui modelli organizzativi che si cimentano nella produzione di valore multidimensionale, è interessante tentare un bilancio, ammetto del tutto previsionale, per quanto riguarda l’imprenditoria non profit le cui bottom line sono tre e definibili più precisamente: la coesione sociale e territoriale grazie alla produzione di servizi di interesse generale (cura, inclusione, educazione, ecc.); il valore economico derivante da un mix di risorse (soprattutto di mercato ma non solo) e, infine, il coinvolgimento di risorse umane con qualità professionali e motivazioni, in particolare offrendo occupazione retribuita.

Il risultato di medio periodo è positivo su tutti i fronti. I dati del censimento Istat non lasciano dubbi a riguardo, in particolare rispetto alle bottom line economica e occupazionale. Più complessa la produzione di coesione, ma ci penserà a breve ancora l’istituto di statistica interpolando le perfomance delle imprese sociali (cooperative) con un set di indicatori di coesione sociale a livello locale, anche se non sarà agevole stabilire fino a che punto l’imprenditoria sociale è un prodotto di territori coesi o se queste imprese agiscono effettivamente come agenzie di coesione.

Nel breve invece le cose non sembrano andare così bene. Forse è davvero giunta al termine, come affermava un importante dirigente del movimento cooperativo, la prima fase di resilienza di queste imprese basata sul mantenimento del segno positivo delle bottom line grazie a pratiche di efficientamento, utilizzo del patrimonio, disponibilità al sacrificio da parte dei soci e di altri interlocutori. Il dato occupazionale è il più emblematico in tal senso. Quel -5.400 posti del saldo tra nuovi ingressi e uscite certificato da Unioncamere qualche tempo fa è quasi uno shock per un settore abituato solo a saldi positivi anche rispetto alla creazione di occupazione. E con imprese che in molti contesti sono in cima alle classifiche come numero di lavoratori e dunque fanno valere questa loro qualità.

E’ l’effetto della crisi si dirà. Di una situazione che è sempre meno congiunturale e sempre più stato ordinario. Crisi che però enfatizza alcuni problemi strutturali nella definizione dell’algoritmo della creazione di occupazione. Vere e proprie starature. Almeno tre. La prima riguarda i mercati, perché i parametri economici e i profili di competenza dei lavoratori delle imprese sociali fanno riferimento ai contesti di subfornitura per conto della pubblica amministrazione, mentre oggi c’è una parte sempre più consistente di servizi di welfare erogati attraverso modelli di business che mettono fuori mercato le imprese sociali. La seconda staratura riguarda il profilo imprenditoriale dei lavoratori. E’ evidente che la regolazione dei rapporti di lavoro privilegia lo schema classico del rapporto alle dipendenze e non il fatto che molti lavoratori sono anche soci e proprietari dell’impresa assumendosi quindi onore ed oneri derivanti da questo status. Infine la bottom line occupazionale è starata rispetto alla necessità di offrire incentivi di natura extraeconomica per remunerare strutture motivazionali complesse. Se ne parla da molto tempo ma manca una chiara strutturazione e valutazione in tal senso. Forse è per questo che le imprese sociali sono sempre meno attrattive per lavoratori giovani (ancora dati Unioncamere) e quindi quest’ultimi, un po’ per necessità e un po’ per virtù, tentano loro stessi una propria via all’imprenditoria sociale in veste di startupper.


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