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Una startup per cambiare

di Flaviano Zandonai

Cambio di strategia per le startup. Non ci sono le condizioni per replicare gli ecosistemi di altri paesi basati su concentrazioni di imprese innovative tali da generare cambiamenti di sistema. La via è un’altra: riallacciare e rafforzare le relazioni con le PMI del manifatturiero e dei servizi, ovvero con il tessuto connettivo – o quel che ne rimane – di questo Paese. A dirlo è Riccardo Donandon, leader del movimento dell’imprenditoria digitale e presidente dell’associazione Italia startup. Forse è una via d’uscita per un settore dove a crescere sono soprattutto le strutture di incubazione e di accompagnamento – circa 200 tra incubatori, hub, parchi tecnologici per poco di più di 1.200 startup innovative – e che fatica ad attrarre la risorsa principale per il suo sviluppo, ovvero una finanza specializzata e spericolata nell’investire su imprese nascenti e ad elevato rischio di fallimento. Forse c’è però un altro motivo, cioè che le imprese innovative, in particolare quelle dell’ICT (la gran parte), giocano un ruolo importante nell’innescare processi di cambiamento del modello di business delle imprese tradizionali ed anche nelle loro reti. La disponibilità di piattaforme e network digitali consente infatti di ampliare e di amplificare lo spettro delle relazioni improntate alla cooperazione tra i vari soggetti coinvolti, e non solo a livello locale.

E’ un’occasione importante anche per l’impresa sociale che forse guarda alle startup con una certa indifferenza (se non sospetto). Eppure i punti di convergenza non mancano, anzi. Sono almeno tre. 1) I progetti d’impresa che infrastrutturano la sharing economy; prima di trovarsi di fronte la killer application che spiazza l’offerta tradizionale come nel caso della mobilità e del turismo, forse è il caso di cercare forme di collaborazione in campo “sociale”; l’evento sharitaly tra qualche giorno a Milano potrà rappresentare una buona occasione in tal senso, un’opportunità per imprese sociali che vogliono ridisegnare i loro servizi incorporando elementi di innovazione generati dalle nuove ventures dell’economia della condivisione. 2) Le startup nel campo sanitario e socio assistenzale che si stanno diffondendo a macchia d’olio con progetti che innovano radicalmente contenuti e modelli di business dei servizi di cura, riabilitazione, assistenza e che potrebbero vedere – perché no – qualche imprese sociale in veste di “business angel”. 3) La “rivoluzione” dei nuovi artigiani (i makers) non ha ancora riguardato, ed è un peccato, le imprese del sociale che fanno manifattura con obiettivo di includere persone svantaggiate nel mercato del lavoro. Eppure non sarebbe male vedere installata qualche stampante 3D in una cooperativa sociale di tipo B (così magari avremo l’occasione di vederla stampare qualcosa di dverso da dinosauri e farfalle, ma questo è un altro discorso).

Un cambiamento per via esogena perseguito intenzionalmente. Un percorso che però sembra ancora lungo. Basti pensare – come rileva un interessante post di Ivana Pais – che ormai gli spazi di coworking e di incubazione li promuovono tutti fuorché le imprese. D’altro canto ci sono lodevoli eccezioni anche nel campo dell’imprenditoria sociale. Alle esperienze pioniere come Fab – l’incubatore della cooperativa sociale Itaca – e le strutture generate dalla cooperativa sociale Vedogiovane, se ne affiancano di recentissime come on/off a Parma. Tutte iniziative che, in maniera consapevole, generano – oltre a nuove imprese e con esse ricchezza economica, innovazione, inclusione, ecc. – anche cambiamento interno delle organizzazioni promotrici.


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