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Le leve corte del terzo settore

di Flaviano Zandonai

Da dove si comincia? E’ la domanda forse più banale ma anche più spontanea di fronte al progetto di riforma del terzo settore presentato dal governo e discusso oggi con il premier e il sottosegretario Bobba nella redazione di Vita. Sì perché le questioni sono tante – cinque linee guida e ventinove punti operativi – il tempo è stretto (deadline il prossimo 13 giugno) e la strada è in salita, anzi in verticale. Renzi infatti è stato chiaro: ogni singola iniziativa dovrà passare al vaglio non solo delle famigerate compatibilità economiche, ma anche delle compatibilità con le macro politiche di trasformazione del Paese. Riprendendo un passaggio della replica al question time: i cambiamenti del terzo setttore dovranno essere funzionali alla riforma dei suoi principali ambiti di intervento. Cambia nella misura in cui è utile a cambiare la sanità, l’educazione, ecc.

Sembrava di stare a una gara di arrampicata in velocità, col premier naturalmente a far da capo cordata (figurarsi!) procedendo con tiri di corda lunghissimi (e, diciamocelo, un tantino pericolosi). Il terzo settore presente all’incontro non ha sempre dato l’idea di seguire alla stessa velocità, o addirittura di rilanciare. Ha preferito procedere per la via, forse un po’ più agevole, delle single issues, questioni che riguardavano soprattutto la regolazione di temi specifici.

Forse era meglio sollecitare di più il capo del governo rispetto ad alcune leve di sviluppo sulle quali coinvestire. Me ne vengono in mente quattro, alcune in realtà emerse (ma non abbastanza), altre presenti nel progetto di riforma (da approfondire) e altre rimaste nel limbo (o “in canna” a qualche potenziale relatore come il sottoscritto). Rispetto al tema emerso, bene l’affondo sul servizio civile che, come ha detto giustamente Johnny Dotti, riguarda il rilancio del civismo su larga scala magari andandosi a cercare le risorse. Sparandola ancora più grossa si potrebbe dire che il servizio civile e un tassello della questione. Ci sono altri bacini da valorizzare. Solo due esempi: 940mila volontari che già operano nel nonprofit (il 20%) hanno meno di 30 anni e 170 mila lavoratori sono “skillati” come direbbero nel business, sono cioè in possesso di competenze tecnico specialistiche di alto livello. Un potenziale notevole per allungare di un bel po’ questa “leva civica”. Guardando invece al documento governativo un tema di sviluppo non da poco è rappresentato dal bullet point numero 28: “introduzione di nuove modalità per assegnare alle organizzazioni di terzo settore in convenzione d’uso immobili pubblici inutilizzati”. Sono i cosiddetti “community asset” che finora hanno riguardato tipologie specifiche (beni confiscati, beni di enti religiosi, ecc.) ma che potrebbero essere allargati ad altri ambiti: il demanio pubblico (facciamo un “cinque per mille” delle cubature?), ma che dire della rigenerazione di immobili in pancia a istituti bancari che oggi rappresentano solo “sofferenze”? Una grande sfida che fin qui il terzo settore ha realizzato soprattutto attraverso eccellenze piuttosto che con un vero e proprio “modello industriale” su vasta scala, come insegna la vicenda recente delle stazioni ferroviarie impresenziate. Sempre nello stesso documento sono sfidanti i riferimenti alla progressiva (e definitiva?) riallocazione delle risorse pubbliche dal finanziamento dell’offerta alla domanda. Un tema – quello di voucher e buoni servizi – emerso durante la discussione più come elemento problematico che di opportunità. In altri termini non è chiaro fino a che punto il terzo settore è in grado di produrre beni di relazione cofinanziandoli anche con i voucher. E nel frattempo sempre più soggetti for profit sono interessati a farla propria questa leva di finanziamento con l’etichetta del “secondo welfare”. La quarta e ultima leva – di cui non mi sembra si sia parlato – riguarda i fondi europei. Il terzo settore è storicamente uno dei principali gestori di alcuni fondi EU (FSE su tutti) e in questa nuova tornata di programmazione l’impresa sociale sarà priorità d’investimento anche in altri (Fesr, ecc.). Per non parlare dei fondi diretti (Horizon2020 e il nuovissimo Easi) che sono zeppi di “societal challanges” per dirla in gergo progettualese. Ecco su questo fronte la sfida poteva riguardare non tanto la tutela o l’incremento delle ripartizioni economiche (aspetto comunque rilevante), ma la proposta, come ha sollecitato lo stesso Renzi, di “un’idea di Europa” che passi attraverso un certo modo di impiegare i fondi, dove si colga il “valore aggiunto” del terzo settore (anche in termini di cofinanziamento).

Stringendo: le leve ci sono, sono anche ben definite. Forse sono ancora un po’ troppo corte per consentire al terzo settore di correre incontro alle sfide di cambiamento del Paese, ma la riforma dovrebbe servire a questo. Ricordate Forrest Gump?


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