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Welfare & Lavoro

La direzione dell’impatto

di Flaviano Zandonai

Di solito quando si valuta l’impatto, oltre alla velocità, è necessario individuare anche l’origine e la direzione. Stabilire da dove un corpo proveniene è una condizione molto importante per misurare gli effetti generati. Anche nel caso dell’impatto sociale può essere utile tentare questo tipo di esercizio, pur consapevoli che la questione non si risolve in un laboratorio di fisica o peggio sulla scena di un incidente automobilistico. Nel caso delle misure che riguardano i cambiamenti generati da iniziative, imprenditoriali e non, che ambiscono a risolvere problemi di rilevanza socio ambientale, l’origine riguarda la cultura di riferimento dell’impatto sociale. Un’impostazione che nell’arco di poco tempo è riuscita a contaminare anche il campo del nonprofit e soprattutto dell’impresa sociale. Nei testi fin qui disponibili della riforma del terzo settore, infatti, si legge che l’obiettivo primario dell’impresa sociale è diventato “il raggiungimento di impatti sociali positivi, misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale”.

Stabilire l’origine culturale dell’impatto sociale è utile quindi non solo per definire le metriche e la nuova mappa degli stakeholder del settore, magari poi perdendosi nelle dietrologie dei giochi di potere. E’ decisamente più interessante farlo per svelare la dimensione non contingente ma paradigmatica di questa impostazione. In altri termini non per capire se “quel che c’è dietro” all’impatto sociale rappresenta un’opportunità o una minaccia per il nonprofit, ma se definisce piuttosto una nuova architettura della socialità.

Una risposta a questo interrogativo la si può trovare in un recente articolo di Evgeny Morozov pubblicato sul Guardian. Un pezzo lungo e anche ostico (per me), ma che merita di essere letto e commentato perché propone correlazioni tra fenomeni diversi – big data e forme di governo, start-up e welfare state – che delineano il quadro di trasformazione in atto. L’origine di questo processo – secondo Morozov – deriva dalla capacità dei sistemi digitali processare in tempo (quasi) reale una quantità e qualità di dati crescente; dati che vengono rilevati grazie a sistemi di tracciatura sempre più disparati e “smart”, legati cioè a comportamenti naturali: dalla sensoristica del traffico, alle scelte alimentari, alle preferenze di lettura. Tutto questo genera un sistema di feedback sempre più pervasivo ed efficace che è all’origine di un cambiamento cruciale nel modo in cui si intende e si esercita – in senso lato – la funzione di governo. Riprendendo una suggestione del filosofo Giorgio Agamben, si assiste a uno spostamento da un governo che agisce sulle cause a un governo che opera sugli effetti rispetto ai quali dispone ora di una gran quantità di misure. Traslando questo spostamento in campo sociale ben si comprende la “fame” crescente di indicatori di impatto. Indicatori che diventano prioritari per definire un valore sociale che prima era incorportato ex ante in modelli organizzativi e di governance costruiti ad hoc.

Ma allora ha senso definire ciò che è profit e nonprofit, pubblico o privato in una società dove il driver premiante è dato dagli effetti generati in termini di impatto “positivo e misurabile”? Domanda tutt’altro che peregrina, considerando quel che sta accadendo sul fronte normativo. La riforma del terzo settore recentemente promossa dal governo si basa infatti su un impianto di forme istituzionali che potrebbe non avere più cittadinanza in quella che Morozov chiama “regolazione algoritmica”. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze si potrebbe presagire una sorta di “liquefazione” delle forme organizzative vocate alla produzione di valore sociale, ben rappresentata, ad esempio, dalle ambivalenze che caratterizzano il fenomeno della sharing economy dove si mischiano iniziative dal basso e ventures di grandi corporation. Un motivo in più per accelerare un percorso di riforma che rischia di arrivare lungo non tanto rispetto “ai tempi della politica”, ma al compimento di una rivoluzione che è già in atto.


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