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Welfare & Lavoro

Il fallout di 29 giugno

di Flaviano Zandonai

La metafora, purtroppo, regge. Lo scandalo che ha coinvolto la cooperativa sociale “29 giugno” a Roma avrà ricadute diversificate, ad ampio raggio e per lungo tempo. Proprio come un’esplosione nucleare. La sensazione è quella di un azzeramento delle posizioni, dove i distinguo e le precisazioni, che pure ci sono e sono importanti, rischiano soprattutto ora di amplificare piuttosto che contenere gli effetti generati da questa vicenda. Si assiste quindi a una sorta di ritorno all’elementare dove “le questioni di fondo” emergono in tutta la loro drammatica evidenza. E tutto ciò, paradossalmente, può addirittura essere positivo: uno shock che aiuta a riposizionare il dibattito sulle cose che contano, guardando ai fondamentali del sistema. Una “esternalità positiva” quasi bizzarra che richiama la necessità di rifondare.

Un primo elemento fortemente sollecitato (e quindi da cambiare) è la narrazione. Può sembrare un aspetto marginale rispetto a temi di natura più strettamente tecnica, però è rilevante perché crea identità e alimenta il flusso delle relazioni. Dopo quel che è successo a Roma molto storytelling appare invecchiato precocemente (compreso quello di questo blog). In particolare perdono forza le argomentazioni che mettono in guardia il settore sociale dal rischio di “contaminazione” derivante da un’eccessiva apertura rispetto a mondi diversi (il capitalismo in particolare). Il mito della purezza (e della nicchia) sembra giunto al capolinea. Altro aspetto a rischio è la narrazione che riguarda il comparto in sé e non solo le sue singole realizzazioni: al brand “impresa sociale” aspetta un lungo e faticoso percorso di rifondazione reputazionale che si giocherà non solo nelle aule parlamentari (c’è una riforma in ballo) o in altri contesti istituzionali, ma soprattutto passerà al vaglio dell’opinione pubblica.

Un secondo elemento messo a nudo riguarda la valutazione. Su questo fronte “l’impatto” dello scandalo 29 giugno è davvero forte. Si è spaccato il capello in quattro per trovare le migliori misure di impatto sociale e per qualificare la rendicontazione dell’impresa sociale, salvo poi scoprire che soggetti formalmente in regola rispetto al social accounting erano in realtà giganti con i piedi di argilla. Cioè che poggiano su strumenti di controllo che, per ragioni diverse, non funzionano e quindi depotenziano valutazioni più sofisticate, fino a far regredire gli indicatori al ruolo di foglia di fico che nasconde vergogne più grandi. E così la linea principale, quella che davvero conta in questo Paese, cioè quella della legalità, viene presidiata solo dalla giustizia. Uno smacco, soprattutto per imprese che perseguono obiettivi di “interesse generale” e che hanno dalla loro parte uno strumento importante da mettere in gioco: un assetto di governance da far funzionare anche come presidio rispetto a derive come quelle appena successe.

Da dove ripartire ce lo dice Lucio. Alla fatidica domanda sul che fare risponde, come sempre, la pratica. Ad esempio quella che ha letteralmente rifondato l’autocostruzione, la realizzazione più autentica dell’housing sociale, messa in crisi da uno scandalo generato da una nonprofit (una Ong) qualche tempo fa. Il consorzio Solidarietà di Senigallia (guidato da Lucio Cimarelli che mi permetto di citare per dare un volto al riscatto) ha infatti realizzato e portato a termine – come ci ricorda questo recente articolo de Linkiesta – alcuni cantieri di autocostruzione che, oltre alle case, hanno ricostruito legittimità e fiducia.


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