Welfare & Lavoro

Il peso e la massa (dell’innovazione)

di Flaviano Zandonai

Le cooperative di comunità? Poche e incompiute. Le imprese benefit? Più convegni che concrete realizzazioni. Le startup a vocazione sociale? Si contano a poche decine (e dipende dalla rilevazione camerale). Gli ibridi dell’impresa sociale? Beh quelli addirittura non esistono (per qualcuno). E’ curioso notare come molte forme organizzative dell’innovazione siano oggetto di un confronto molto acceso a fronte di numeri esigui (unità attive, valore economico, occupazionale, sociale, ecc.). E questo, naturalmente, da’ fiato ai sostenitori della componente “fuffologica” che caratterizza tutto ciò che si etichetta come innovazione sociale. Forse c’è del vero in queste posizioni, ma quasi certamente c’è, voluta o meno, una sottovalutazione di questi stessi fenomeni perché, e qui rispolvero le mie misere nozioni di fisica, si guarda esclusivamente alla loro massa, la famosa “massa critica” che una volta raggiunta consente a un determinato modello di azione di impattare sui sistemi di regolazione e di essere autosostenibile.

In realtà l’innovazione sociale è  soprattutto una questione di peso. Una misura che dipende non solo dalle caratteristiche intrinseche, ma che sconta anche l’influenza del contesto (ambientale e, nel nostro caso, socio economico). “The context is the king” scriveva qualche tempo fa Luca Debiase. Un po’ come la gravitazione ai poli o all’equatore che determina, e di molto, il peso e quindi, fuor di metafora, la rilevanza del soggetto che fa da veicolo dell’innovazione.

Ne ho avuto conferma, l’ennesima, partecipando a un interessante seminario sulle “cooperative recuperate” argentine, altro fenomeno che, a prima vista, pare sovrarappresentato rispetto alla sua massa numerica: appena una sessantina di realtà a fronte di migliaia cooperative (spesso ben più rilevanti considerando le misure tradizionali). Eppure per le recuperadas si sprecano convegni, ricerche, confronti, film, ecc. Tutto esagerato a fronte di un limitato impatto rispetto a una crisi devastante? Sì in termini di massa, no in termini di peso. Perché come spiegavano bene i ricercatori / attivisti argentini le cooperative recuperate stanno al posto giuto e al momento giusto, esposte ai driver del cambiamento. Lungo le faglie che si creano tra economia e società, anzi più precisamente sono imprese poste tra vecchio e nuovo cooperativismo e tra economia industriale e movimentismo sociale. Con l’intento di suturare queste fratture costruendo un nuovo assetto. Per questo assumono, come altre esperienze, quel carattere “paradigmatico” (o almeno emblematico) che consente, attraverso loro, di intravedere “i segnali di futuro” – oggetto di mappatura ed esposizione a Milano – di un nuovo sviluppo. E al tempo stesso consentono di leggere la realtà non attraverso i soliti trade-off: pubblico che spiazza il privato (e viceversa) e profit che contamina il nonprofit (e viceversa), ma attraverso l’affermazione di inediti modelli di produzione del valore che fanno leva, indistintamente, su economia e socialità.

Se infatti Polanyi evidenziava che le istituzioni di mercato hanno perso progressivamente i legami con le reti sociali è altrettanto vero che molto del welfare che conosciamo andrebbe sradicato dalle bucrazie e “piantumato” nella socialità secondo schemi nuovi. Non sorprende così l’interesse per tutto quello che nella protezione sociale è generativo, sussidiario, comunitario, ecc. Una nuova “grande trasformazione” che si realizza modificando l’impianto – e il modus operandi – della Pubblica Amministrazione, ma anche dei soggetti nonprofit e dell’imprenditoria sociale. In questo sta la sfida profondamente politica dell’agognato “civil act”.

Qualche giorno fa leggevo le riflessioni di un cooperatore sociale: “serve smontare elementi di socialità sostituendoli con buona impresa, in modo da realizzare un modello in cui non serva più rincorrere sistemi di riconoscimento e sostegno speciale della parte svantaggiata della società, in quanto essa è inclusa nei normali processi di inserimento lavorativo e di produzione. Si dovrebbe attuare in tal modo una normalizzazione di essere e fare impresa, come modello standard frutto di un mix di componenti tra welfare ed economia di mercato”. Considerazioni forti che, per dirla sbrigativamente, superano di slancio le linee guida ANAC rispetto ai “favoritismi” del terzo settore nei mercati pubblici e riposizionano l’imprenditoria sociale al centro della crescita. Tanto che, a questo punto, più che a una coop B questa impresa finisce per assomigliare a una… B Corp.


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