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Cosa c’è nella schiscetta

di Flaviano Zandonai

La notizia è davvero troppo golosa per non essere commentata, anche a distanza di qualche giorno. Del resto, visto il tema, funziona come alcune preparazioni culinarie che migliorano dopo qualche giorno. Si tratta infatti della querelle sul panino, o meglio sulla schiscetta, da portare a scuola sostituendo il pranzo in mensa. Una tipica controversia da colonna destra dei siti di news (quella solitamente dedicata ad amenità varie ed eventuali), ma in realtà carica di ambivalenze e di conseguenze che travalicano la questione in sé, rendendola emblematica di mutamenti sociali che sono insieme più profondi e ad ampio raggio.

Ecco quindi una lista di addentellati variamente correlabili a questa storia.

In primo luogo c’è un’incapacità diffusa di gestire il conflitto lì dove si manifesta. Tutto (o quasi) viene sussunto nella sfera del potere giudiziario e al suo massimo livello. Cause che arrivano in Cassazione. Un risultato che genera l’ormai famoso sovraccarico del sistema giudiziario, ma che denota l’assenza (o la scarsa efficacia) di modelli di gestione del conflitto posizionati lì dove i casi avvengono, ovvero lungo la linea del servizio.

In secondo luogo emerge l’insofferenza per un’eccessiva industrializzazione dei servizi, sempre meno capaci di cogliere il principale elemento di trasformazione della domanda, ovvero la sua crescente personalizzazione. Si può discutere sulla rilevanza delle diverse fenomenologie (dal cibo ai servizi sociali), ma il dato di fondo rimane: il prevalere della risposta specifica anche a costo di mettere in discussione baluardi dei modelli di servizio come certificazioni e accreditamenti sulla salubrità, sulla sicurezza degli spazi, sulle responsabilità degli amministratori, sui ruoli degli operatori, ecc.

In terzo luogo la schiscetta segnala la volontà di una “gestione diretta” di processi produttivi oggi invece esternalizzati lungo catene di subfornitura sempre più lunghe e opache. All’origine di questa opzione ci sono anche motivazioni di natura economica: meglio i soldi in tasca – o da spendere presso una gamma più vasta di operatori – piuttosto che un’offerta predefinita e poco adattabile.

Infine iniettare di qualità i servizi, dopo una certa soglia, non genera valore anzi tende alla saturazione rendendo i processi produttivi più complessi da gestire e più costosi. Serve uno scatto ulteriore che consiste nel riconoscere e nel rafforzare la dote di risorse e di competenze dei beneficiari, ponendo le basi per nuovi modelli di interazione con i produttori “in corso d’opera”.

Vedremo cosa deciderà la Cassazione. Nel frattempo è necessario attrezzare contesti diversi in grado di fare service design della coproduzione. L’unico modo, o quello da preferire, affinché la linea del servizio non si trasformi in un’occasione di conflitto permanente tra ruoli rigidamente separati, dove neanche la trasparenza del processo (ad esempio attraverso la rendicontazione e le analisi di costumer satisfaction) basta più. Un compito che si potrebbe assegnare a quei “community hub” che sempre più punteggeranno il territorio come strutture pluriservizio allestite per favorire codesign e cogestione con operatori, volontari e soprattutto cittadini prosumer. E non sarebbe male iniziare proprio dalla schiscetta: da un modello comunitario di mensa dove sia possibile contribuire con prodotti e saperi propri e dove si possano avviare iniziative socio culturali e di aggregazione sociale. Attività solitamente definite a corollario ma che, sappiamo bene, sono sempre più centrali per generare coesione e sviluppo economico. Sono le periferie a dirci che si può fare, come ad esempio i comedores comunitari in america latina o la storia dei nostri quartieri come i circoli ricreativi. A noi rigenerarli.


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