Politica & Istituzioni

Un disagio da condividere

di Franco Bomprezzi

Non so che cosa stia succedendo a voi. Parlo per me. Mi sembra di vivere in un tempo sospeso, rimbalzando dentro un contenitore vuoto, a gravità zero. Ogni tanto si sfiora la superficie trasparente, si riesce a intravvedere qualcosa là fuori, gente che urla, che batte i pugni, che chiede aiuto. Poi si torna indietro, verso il centro, ma il tutto è senza alcuna forza di gravità, senza direzione apparente. Non sto facendo uso di sostanze strane, cerco solo di rappresentare un disagio profondo per quella che mi pare una situazione talmente complessa da richiedere, rapidamente, un cambio di direzione rapido e deciso, una svolta epocale, che ci aiuti a restituire senso al nostro agire quotidiano.

I mondi sociali in crisi si stanno muovendo con traiettoria centrifuga, è difficile condensare le ragioni della coesione sociale, innanzitutto fra generazioni accomunate dalla crisi, ma proprio per questo separate al momento della ricerca di soluzioni possibili. La mancanza di lavoro, innanzitutto. Sta diventando talmente diffusa da sgomentare anche coloro che quotidianamente continuano a costruire, in silenzio, azioni positive, utilizzando la fantasia, la creatività, la semplicità. Senza lavoro non c’è possibilità di consumare alcunché. La spesa individuale e familiare si inaridisce, la povertà è rinviata e rintuzzata a fronte di sacrifici e di assestamenti acrobatici del bilancio. Ma la disoccupazione è forse funzionale a un certo modo di concepire l’attività di impresa, perché consente di mantenere basse le retribuzioni e di decidere di volta in volta chi ammettere, chi espellere, senza neppure passare per cinici o crudeli.

La stanza di compensazione del volontariato o comunque dell’impresa sociale, o della cooperazione, rimane un’ancora di salvezza, ma le risposte sempre più evanescenti o deboli che vengono dalla committenza pubblica o del privato sociale rendono giorno dopo giorno indispensabile aggrapparsi a diritti minimi, di pura sopravvivenza. E’ da tempo che stiamo rinunciando – mi pare – a pensare in grande, a lanciare sfide, ad aprire scenari eticamente sostenibili di sviluppo diffuso e socialmente consapevole, inclusivo, accettabile.

Si riparte dal 5 per mille, e speriamo di vincere almeno questa lunga battaglia condotta in prima fila da Vita e dal terzo settore. Ma forse occorre di più. L’Italia e l’Europa dovrebbero decidere da che parte stare, se subire le regole di una globalizzazione selvaggia e illiberale, che premia tutti coloro che nel mondo delocalizzano, pagano poco, non rispettano l’ambiente e la dignità delle persone, oppure reagire con orgoglio, difendendo, proteggendo (anche economicamente) il nostro patrimonio di civiltà solidale e operosa, di welfare che si fa ricchezza, che trasforma le città e le comunità piccole e grandi, aiutandoci a vivere, e non solo a sopravvivere.

Un pensiero forte, ci vuole un pensiero forte. Che superi certamente le categorie ideologiche del passato, ma che non può prescindere da alcuni principi fondamentali di umanità e di solidarietà. Ecco, in queste poche righe ho solo delineato il mio disagio. Oggi la decisione del Parlamento è di rinviare il voto sulla Santanché. E allora il disagio rischia di trasformarsi in nausea. Ma sono certo che passerà. Ce la faremo.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA