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Sos Lega Pro, il profondo rosso dei piccoli club

di Roberto Brambilla

C’è crisi”. Così gli addetti ai lavori spiegano il mercato quasi immobile della Serie A e la fuga dei migliori giocatori verso l’estero. Ma la crisi non si vede solo nel calcio professionistico, in Serie A e in Serie B. Per vedere come il pallone italiano goda di pessima salute basta scendere di categoria, dando uno sguardo alla Lega Pro, Prima e Seconda Divisione.

Tra il 2007-2008 e il 2012-2013 sono fallite 61 squadre appartenenti alla vecchia Serie C, con una punta di 21 mancate iscrizioni nella stagione 2010-2011. Come se un’intera serie fosse stata inghiottita dai debiti, dai costi eccessivi e dai pochi ricavi. Ma a fallire non sono solo società di discreta tradizione, come il Siracusa, il Pergocrema o il Giulianova ma anche alcune delle “grandi” del calcio di provincia italiano. Come il Piacenza, sei stagioni in Serie A tra il 1994 e il 2000, qualche campionato in B e quest’anno la retrocessione sul campo in Lega Pro Seconda Divisione. La squadra emiliana, dopo trent’anni di presidenza della famiglia Garilli, è stata dichiarata fallita a marzo 2012 e dopo l’affidamento ai curatori fallimentari e varie aste deserte si è dissolta a fine giugno.

Come la Spal, società di Ferrara in cui hanno militato tra gli altri il neo ct russo Fabio Capello. Cesare Butelli, presidente della società già fallita e rifondata nel 2005, non ha infatti versato i poco più di tre milioni necessari per l’iscrizione alla LegaPro. O come la Triestina, squadra che fu la rampa di lancio del Paron Nereo Rocco. Per i giuliani, militanti nell’ultima stagione in Lega Pro Prima Divisione, il tribunale civile di Trieste aveva avviato con il campionato ancora in corso le procedure per il fallimento e l’amministrazione controllata del club, schiacciato da oltre cinque milioni di euro di debiti. Retrocessione sul campo e aste per il titolo sportivo deserte, ecco come è fallita la squadra triestina.

A completare questa galleria degli orrori due compagini pugliesi, il Taranto e il Foggia. La società salentina, proprietà dell’imprenditore Enzo D’Addario, è arrivata a un passo dalla B, nonostante sette punti di penalizzazione, ma non è riuscita a ripianare i debiti accumulati e ora potrebbe partire dai dilettanti, dopo la mancata iscrizione alla Lega Pro Prima divi. Il Foggia, una volta la terra del profeta Zeman, non esiste più. Il club di proprietà di Pasquale Casillo non ha presentato ricorso alla Co.vi.Soc (l’organismo che si occupa di controllare dei conti delle società di calcio) e non ha consegnato i documenti necessari a garantire subito 885mila per pagare gli stipendi arretrati ai tesserati, la licenza dello stadio Zaccaria e una fideiussione bancaria di 600mila euro.

Storie di ordinari fallimenti che spiegano relativamente bene lo stato di salute del calcio italiano delle serie inferiori. Poche risorse, qualche investimento azzardato, scarsa programmazione, Troppe squadre. Insomma servirebbe una riforma. O almeno una grande riflessione. Per il bene del calcio italiano. Per costruire un progetto che rivaluti le serie inferiori e che le trasformi di nuovo in un trampolino di lancio per giovani interessanti. Come è stata la Serie B negli ultimi anni.


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