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Afghanistan, una rivoluzione rosa sui pedali

di Roberto Brambilla

Un tabù che può costare la morte. Per una donna pedalare in Afghanistan è soprattutto un rischio. Ma le due ruote (senza motore) possono essere un mezzo di emancipazione. Così pensa l’organizzazione no profit statunitense Mountain2Mountain, fondata nel 2006 da Shannon Galperin e che si occupa di aiutare le donne nelle situazioni di conflitto. Nel paese asiatico M2M ha portato avanti tra gli altri un progetto di riabilitazione per le ragazze eroinomani, un laboratorio di computer nelle scuole di Kabul e dal 2012 il supporto alla nazionale femminile di ciclismo. Un sostegno nato quasi “per caso”, quando Shannon Galperin scoprì con la “complicità” di un barista e della Federazione afghana che anche le donne afghane andavano in bicicletta. Con il velo sotto il caschetto, camicie dalle lunghe maniche e sotto la guida degli allenatori del team maschile. Un fatto che colpì molto la 38enne Shannon, ex istruttrice di pilates e cicloamatrice. Galperin incontrò prima i ragazzi della nazionale maschile e poi Maryam, corridore donna e team manager, oltre che collaboratrice di Mohammed Abdul Seddiq, allenatore delle due selezioni afghane.

Nel novembre 2012 è iniziata la collaborazione. Con l’invio di nuovi materiali, 5 biciclette fornite dal Liv/Giant e 160 kg di abbigliamento sportivo. Le ragazze (ci sono 450 atlete tesserate in tre categorie a partire dalla juniores) sono anche il soggetto di documentario “Afghan Cycles”, Una pellicola diretta da Sarah Menzies, fondatrice di Let Media e portato a termine grazie a una raccolta fondi su Kickstarter, partita a gennaio 2013. Il film dovrebbe essere pronto per la primavera 2014, ma la sfida vera è quella di provare a portare almeno una ciclista afghana alle Olimpiadi di Rio 2016. Per farlo c’è bisogno di supporto. Altro equipaggiamento, un pulmino ( e un autista) per gli allenamenti fuori Kabul e soprattutto denaro per consentire alla squadra di partecipare ad eventi all’estero, fondamentali per diventare più competitive. E coltivare, soprattutto fuori Kabul (ci sono anche atleta di Bamyan dove nel 2001 i talebani abbatterono le statue giganti di Buddha), il sogno di un Afghanistan in cui le donne abbiano pari dignità anche nello sport. Qualche passo in avanti è stato fatto (per esempio tre ragazze hanno corso i campionati asiatici nel marzo 2013) ma la strada è ancora lunga. E un po’ in salita.


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