Aiuti allo sviluppo. La scelta canadese fa riflettere

di Eduardo Missoni

L’agenzia canadese per lo sviluppo internazionale (CIDA) fin qui guidata da un ministro ad hoc  (Ministro della Cooperazione Internazionale) verrà dunque accorpata in un ministero degli esteri rinominato,  per l’appunto, Dipartimento degli affari esteri, il commercio e lo sviluppo (in Canada i ministeri sono denominati dipartimenti). Vita ne dà la notizia con un articolo di Gabriella Meroni che riporta anche le reazioni favorevoli di chi sostiene che si tratti di una scelta opportuna data l’inefficacia degli aiuti e quindi l’inutilità dell’agenzia.

La scelta canadese offre almeno due spunti di riflessione. Il primo, sull’efficacia degli aiuti, s’inquadra in una più generale discussione sulla finalità e le modalità della cooperazione internazionale allo sviluppo. Il secondo, assume particolare rilevanza nel dibattito riavviatosi in Italia nella scorsa legislatura circa la configurazione istituzionale più adeguata alla formulazione e gestione di quelle politiche in un’auspicabile ripresa del processo di riforma del settore.

Per quanto riguarda l’efficacia, certamente nel sistema internazionale degli aiuti ci sono molti aspetti da condannare: diffuse inefficienze, frammentazione, condizionamento e asservimento a priorità e interessi particolari dei donatori, condizioni anche corruzione. L’inefficacia ne è la conseguenza.

Se le condizioni di vita di milioni di persone sono peggiorate e le disuguaglianze continuano a crescere, nonostante l’accresciuto volume – ma iniqua distribuzione – dell’economia mondiale, la colpa non è certo degli aiuti. Infatti, anche nell’ipotesi di un loro uso efficiente e opportunamente e prioritariamente diretto ai bisogni delle popolazioni, gli aiuti non potrebbero contrastare l’iniquità dell’attuale sistema economico mondiale e forse nemmeno tamponarne gli effetti, data la sproporzione tra il volume dei flussi finanziari dell’aiuto allo sviluppo e quello delle inique ragioni di scambio tra Nord e Sud del mondo.

Purtroppo, benché la comunità internazionale abbia da molto tempo identificato i principi fondamentali da applicare per un aiuto allo sviluppo efficace – sanciti nel 2005 nella Dichiarazione di Parigi – quei criteri (ownership dei paesi partner partner;  allineamento alle procedure e ai meccanismi istituzionali di quei paesi, armonizzazione procedurale tra i donatori; gestione per risultati e mutua rendicontazione – accountability) sono ancora ampiamente disattesi.

Se si traccia la rotta, ma non si segue difficilmente si raggiunge la destinazione. Non per questo si può dire che il mezzo è inadeguato.

La scelta canadese di fondere la gestione dell’attività di cooperazione allo sviluppo in un nuovo Dipartimento (Ministero) che ora integra quelle competenze e quelle proprie della diplomazia e del commercio estero deve far riflettere.

Poco più di due anni fa intervenendo alle Nazioni Unite il capo del governo canadese ribadiva l’impegno di quel paese per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio entro il 2015. “Le nostre parole qui, oggi devono tradursi in realtà semplici come cibo sulla tavola, il miglioramento della salute e una vita migliore per i bambini di tutto il mondo” affermava il primo ministro Harper in quella occasione.  Già a novembre dello scorso anno il Ministro della cooperazione internazionale, Julian Fantino, però anticipava lo spostamento dell’orientamento della politica canadese degli aiuti internazionali verso il settore privato e del business.  “Il nostro obiettivo è quello di garantire che le imprese canadesi siano in grado di competere a livello internazionale, senza perdere di vista la necessità di rafforzare le economie locali dei paesi più poveri” sottolineava Fantino. Quella visione si è tradotta ora nell’integrazione delle politiche di cooperazione allo sviluppo con le altre priorità della politica estera canadese.  Il documento di bilancio che riferisce della fusione la giustifica con il “crescente collegamento tra la politica estera, lo sviluppo e gli obiettivi commerciali” e vede nel maggiore allineamento di quelle politiche l’opportunità per una maggiore coerenza dell’azione di governo, con un suo più significativo impatto complessivo e maggiore efficacia degli interventi umanitari e di sviluppo. Di per sé l’integrazione non è un problema.  Il vero punto di domanda è sapere in che direzione saranno davvero utilizzate quelle sinergie, anche se date le premesse è lecito temere deviazioni in senso commerciale.

In Italia la legge  (n.49 del 1987) afferma che “la cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell’Italia” (e sottolineo: non  strumento, come spesso qualcuno afferma assoggettando implicitamente e surrettiziamente la cooperazione ad altri interessi). Quale obiettivo debba avere la nostra politica estera può essere dedotto già dalla Costituzione della Repubblica Italiana, che all’art. 2 individua la solidarietà come “dovere inderogabile” e all’art. 11 indica, di fatto, come obiettivo dell’azione internazionale il perseguimento di “un ordinamento di pace e giustizia fra le Nazioni”.  In quest’ottica la cooperazione internazionale dovrebbe essere ispiratrice della politica estera e attorno a questa visione che dovrebbero coagularsi le opportune sinergie.

In seno al governo la politica estera deve essere espressa in forma concertata, ma il responsabile naturale per il coordinamento della proposta è il Ministro degli Esteri, e ogni frammentazione delle responsabilità non può che contribuire a rendere più inefficiente il sistema d’indirizzo politico (stanziamenti globali, loro ripartizione per canali e strumenti, priorità geografiche e tematiche globali e quelle da affrontare sul piano multilaterale, nonché gli stanziamenti bilaterali per Paese).

Altra cosa è la traduzione di quell’indirizzo in programmi attuativi, la cui elaborazione e gestione devono esserne nettamente separate e affidate a un’organizzazione dotata di adeguata leadership, specifiche competenze, risorse certe e dedicate, nonché della necessaria autonomia di operazione.

La mancata separazione tra il momento di indirizzo politico e la sua attuazione – un principio alla base di un moderno management pubblico – è stata troppo a lungo la fonte di inefficienze, commistioni di interessi e deviazioni nell’uso delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo. Prima ancora, però, c’è bisogno di visione strategica circa il ruolo che l’Italia vuole avere in Europa e a livello globale.


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