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Caso Beccaria, se formassimo insieme educatori e agenti?

Dopo la rabbia, lo sgomento e le reazioni “a caldo”, in seguito alla notizia delle violenze nel carcere minorile che ha portato all’arresto di 13 agenti di Polizia penitenziaria e alla sospensione di altri otto, è il momento delle riflessioni e delle proposte. Paolo Tartaglione, Cnca: «Ci dovrebbe essere una formazione comune tra educatori e agenti. Dobbiamo rilanciare tutti gli strumenti alternativi, il Terzo settore deve proporre»

di Ilaria Dioguardi

È la prima volta che una cosa del genere accade in un Istituto penale per minorenni. Sono pesantissimi i reati contestati agli agenti della Polizia penitenziaria (13 arrestati e otto sospesi) del “Cesare Beccaria” di Milano: maltrattamenti a danno di minori, concorso nel reato di tortura, concorso nel reato di lesioni in danno di minori, un caso di tentata violenza sessuale. «È una vicenda difficile da commentare». A parlare è Paolo Tartaglione, referente dell’Area penale minorile Coordinamento nazionale comunità di accoglienza – Cnca.

Tartaglione, ha ragione, le vicende che sono venute alla luce al Beccaria sono difficili da commentare, ma proviamoci…

Abbiamo tantissimi ragazzi che arrivano nelle nostre comunità dagli istituti penali minorili, Beccaria e altri. Al Beccaria, negli ultimi 20 anni, sono stati fatti investimenti insufficienti. Si è ridotto di tanto il personale. Non ha avuto una direzione. Ci sono stati tanti anni di lavori che hanno obbligato i ragazzi a dover andare a molti chilometri di distanza dalle loro famiglie. Tutto questo, insieme ad altri fatti molto più gravi che sono venuti alla luce, ha reso questo Istituto penale minorile un luogo in cui si sta male. Mi si potrebbe obiettare: “In ogni carcere si sta male”. Sì, ma ci sono dei luoghi che sono “malati”. Ultimamente, si parla tanto di “ragazzi incollocabili”.

Chi sono i “ragazzi incollocabili”?

Il Beccaria ne è pieno, è anche uno dei motivi per cui si dirà: “Bisognava pur gestirli in qualche maniera”. Se vengono in comunità, vediamo che questi ragazzi detti “incollocabili” perché ingestibili, imprendibili, inavvicinabili, in realtà non lo sono. Certo, sono difficilissimi ma non sono così diversi da altri ragazzi che accogliamo da più di 20 anni. il vero punto è che, se il luogo della detenzione è un luogo in cui si sta male, mortifica l’intervento educativo a favore di un intervento di contenimento puro. Poi ci sono stati gli eccessi che hanno portato la Magistratura a quest’intervento che ci lascia senza parole. Sarebbe una grande occasione persa, se da questa vicenda non imparassimo qualcosa. Ci piacerebbe che ci fosse una forte integrazione tra le figure degli educatori e le guardie penitenziarie.

In che modo ci potrebbe essere quest’integrazione?

Ci dovrebbe essere una formazione comune tra educatori e agenti. Sarebbe necessaria una supervisione di come vengono gestiti i casi, ci dovrebbe essere la possibilità per chi lavora di avere dei luoghi nei quali poter rielaborare quello che si sta facendo. Ci dovrebbe essere un lavoro di cura adatto ai minorenni. Se si decide di “scimmiottare” gli adulti e cercare di gestire il carcere facendo paura ai ragazzi, può essere che funzioni, ma di sicuro quando escono lì non solo non sono migliorati, ma diventano molto difficili da recuperare.

Paolo Tartaglione, referente Area penale minorile Coordinamento nazionale comunità di accoglienza – Cnca

Cosa bisogna mettere in luce, secondo lei, dopo le vicende del Beccaria?

Quello che per noi bisogna mettere in luce, in questo momento, è che è davvero importante recuperare l’ispirazione della nostra legge penale minorile, del 1988, che ha raccolto straordinari successi lavorando per rendere davvero residuale la carcerazione. Fino a un po’ di tempo fa abbiamo avuto molti successi e il ricorso all’istituto penale era diventata un’eventualità residuale. C’era un grandissimo utilizzo delle comunità educative, che la legge stessa dice che sono il luogo giusto per i progetti educativi dei giovani autori di reato. Questo bruttissimo fatto è l’occasione per far capire a tutti che, se noi vogliamo generare nuovi reati, la cosa migliore da fare è mettere i ragazzi nelle carceri. Se gli istituti vengono gestiti con metodi non educativi, quello che otteniamo sono ragazzi che escono dal carcere con la convinzione di essere loro le vittime. E non riescono a lavorare sull’altra parte.

Dobbiamo rilanciare tutti gli strumenti alternativi, sostitutivi, educativi che sono a disposizione e dobbiamo inventarcene altri. Su questo il Terzo settore ha il dovere di sperimentare, proporre e l’istituzione ha il dovere di utilizzare le cose che funzionano

Qual è l’altra parte?

Dovremmo lavorare sul fatto che questi ragazzi hanno causato un danno ad altri. Abbiamo una legge eccezionale, ha funzionato molto bene, negli ultimi anni mi sembra che si stia facendo della giustizia minorile una sorta di giustizia degli adulti un po’ attenuata, perdendo completamente di efficacia. Gli ultimi passaggi legislativi, la conversione in legge del decreto Caivano, vanno nella direzione di utilizzare un maggiore ricorso alla carcerazione. È noto a tutti che “più carcere uguale più recidiva”. Se vogliamo lavorare bene con i giovani autori di reato, dobbiamo tornare a lavorare tantissimo con l’esterno. Comunque dell’istituto penale non è possibile farne a meno, anche se dovrebbe essere davvero residuale. Dobbiamo rilanciare tutti gli strumenti alternativi, sostitutivi, educativi che sono a disposizione e dobbiamo inventarcene altri. Su questo il Terzo settore ha il dovere di sperimentare, proporre e l’istituzione ha il dovere di utilizzare le cose che funzionano. Poi bisogna investire.

In cosa bisognerebbe investire?

Nella formazione che, ripeto, andrebbe fatta insieme da educatori e guardie penitenziarie, in modo da creare una cultura del lavoro con i minorenni. Questo è un tema importante. O qualcuno spiega e fa crescere con la cultura del minorile, oppure non ce la si può inventare. Io non so da dove arrivino le persone oggi oggetto dell’intervento della Magistratura, però sono piuttosto convinto che non abbiano ricevuto una formazione che possa aiutarli a capire qual è la cultura del penale minorile, che parte dalla lettura del reato come richiesta di aiuto al mondo degli adulti, che mette nelle mani degli operatori della giustizia strumenti per riuscire ad assolvere compiti educativi, che si mette come obiettivo della “messa alla prova” la trasformazione della personalità, che vuole aprire uno sguardo del futuro più ottimista per i nostri ragazzi. È recuperabile, anche domani mattina si potrebbe fare.


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Come si potrebbe recuperare?

Ci vuole la volontà di dire: “Ricordiamoci che non sono piccoli adulti, da trattare uguale agli adulti”. La cultura della giustizia minorile vede la differenza tra minori e adulti. Questo non vuol dire che passi sopra a tutto, anzi è molto esigente. Addirittura pone l’obiettivo di cambiare la personalità, non è poco. Forse è più semplice, per certi versi, scontare i giorni in carcere. È importante rilanciare fortemente una cultura del penale minorile perché alcuni passaggi legislativi la stanno molto mortificando, quello che è accaduto adesso va in quella direzione. Poi ci sono storture, non penso in alcun modo che ci sia la volontà che le cose vadano così come sta venendo fuori in questi giorni. Però è un’ennesima occasione per chiedere a tornare a ragionare con i minorenni autori di reato in termini differenti, perché funziona. Far scontare le pene negli Istituti penali per minorenni non funziona, i ragazzi escono molto arrabbiati e ritengono di essere vittime di un’ingiustizia, e forse è vero.

«Ho avuto, proprio martedì scorso durante una mia visita, l’occasione di parlarne con gli operatori sociali che lavorano nell’istituto: ad oggi mancano ancora oltre dieci educatori ministeriali per completare l’organico e gli ultimi bandi non hanno colmato questo vuoto», ha scritto in un post su Facebook, in riferimento al carcere Beccaria, Lamberto Bertolè, assessore a Welfare e Salute del comune di Milano. Gli operatori sono in forte calo anche nelle comunità (VITA ne ha scritto di recente QUI). Per la sua esperienza, cosa può dirci?

Oltre alle carceri, anche le comunità hanno un gigantesco problema di reperimento del personale, esploso due-tre anni fa. Le difficoltà ci sono in tutte le professioni di cura: dai neuropsichiatri agli educatori d’asilo, dagli insegnanti a scuola ai medici di base, dagli assistenti sociali ai neuropsichiatri infantili. C’è un rifiuto, una scarsa fascinazione dei lavori di cura. L’educatore non fa eccezione, particolarmente critico è il problema di reperimento e di trattenimento del personale nelle comunità, è ancora più difficile reperire personale tra gli educatori nelle strutture per adolescenti, è ancora più complicato per quelle che si occupano di adolescenti nel penale. È normale che, in questo momento, ci sia una minore disponibilità da parte delle comunità ad accogliere i giovani autori di reato. Non conosco una cooperativa che non abbia chiuso almeno una delle sue comunità, negli ultimi anni. Quindi, c’è una minore disponibilità di posti. Ora più che mai sarebbe il momento giusto di collaborare.

Ci spieghi meglio.

Avremmo molto bisogno di fare un incontro collaborativo con i servizi del Ministero e con la Magistratura per capire come possiamo essere di aiuto, come possiamo superare questa situazione nella quale i ragazzi non devono andare in carcere, quando ci vanno è una grande sconfitta della nostra società, al di là degli ultimi fatti. Le comunità sono state sempre un’ottima risorsa, che in questo momento è un po’ in crisi. In questi casi si fa così: ci si incontra e si cerca di risolvere insieme un problema. Dobbiamo chiederci, ad esempio, perché le comunità sono meno disponibili oggi ad accogliere i giovani autori di reato. Andando nella direzione dell’accoglienza, bisognerebbe fare in modo che molte comunità accolgano ciascuna pochi giovani autori di reato (soprattutto in misura cautelare) insieme agli altri ragazzi. La mia preoccupazione è che si provi a fare il contrario, cioè a creare delle comunità super specializzate, che accolgano molti ragazzi autori di reato. Questo ci allontana dal senso che la nostra legge ha provato a tracciare e che, per almeno 35 anni, ha avuto successo. La legge dice che non possono esistere comunità che accolgano solo autori di reato: non lo dice per caso, lo dice perché funziona.

Nella foto di apertura, di Ermes Beltrami/LaPresse, gli esterni dell’Istituto Beccaria a Milano. 


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