Taranto, non l’ILVA, ha bisogno di una strategia!

di Marco Percoco

La vecchia politica di sviluppo del Mezzogiorno ha lasciato in giro per l’Italia manufatti industriali che oggi faticano a trovare una rinnovata collocazione nei territori che li ospitano. La localizzazione di tali impianti rispondeva alla logica dei “poli di sviluppo” e ad uno sviluppo locale che passava per un “innesco” definito da un iniziale, significativo, aumento della capacità produttiva. Il progresso doveva poi venire dagli effetti diretti e indiretti dell’impianto, oltre che dall’indotto. Uno di questi poli è stata l’Italsider di Taranto, poi diventata, nel 1995, ILVA e parte del Gruppo Riva. La questione ambientale è sotto gli occhi di tutti già da tempo e l’intervento della magistratura è servito solo a certificare ufficialmente una situazione di degrado e di rischio sanitario non ulteriormente sostenibile.

 

La discussione pubblica sull’argomento è stata sino ad ora incentrata sull’incompatibilità tra sviluppo e salute e che la siderurgia di Taranto è fondamentale per il sistema industriale nazionale. Questo trade-off è stato impunemente sbandierato dinanzi alla popolazione, con il chiaro intento di annichilirne la volontà collettiva. A me sembra che tale perimetro di discussione sia troppo vecchio, circoscritto e francamente inutile, per alcune ragioni che elenco di seguito ma che forse meriterebbero ulteriore approfondimento.

  1. Non è chiaro perché la produzione siderurgica di Taranto debba considerarsi strategica, quando gran parte delle aziende italiane riescono a farne a meno. Si vuole proteggere questa industria dalla competizione internazionale, come fosse il settore aerospaziale? La “strategicità” in un mondo di vantaggi comparati è quantomeno dubbia.
  2. Quando la magistratura è intervenuta pesantemente nella vicenda si è detto che così facendo nessuna impresa avrebbe più investito in Italia. Qui, il limite del paradosso è stato ampiamente valicato. Le multinazionali investono in un paese osservandone diverse caratteristiche, tra cui la capacità e propensione ad applicare effettivamente la legge (la cosiddetta rule of law). Se la magistratura agisce in tale direzione, perché dovrebbe scoraggiare imprese ad investire nel nostro Paese?
  3. Ammettiamo per un attimo che le precedenti questioni siano irrilevanti e che la produzione di acciaio tarantino debba essere salvata per superiori motivazioni di benessere patrio. Anche in questo caso, il problema è quantomeno mal posto. Ammesso che l’italico acciaio serva, non è certo utile alla città di Taranto. Oggi il territorio riceve 250 milioni di euro di salari[i] e sostiene costi ambientali annuali più o meno per lo stesso ammontare[ii], dunque l’ILVA non produce valore aggiunto sociale per il territorio. La questione viene, allora, ribaltata. Non è più la popolazione locale a dover rinunciare a qualcosa (la salute) per poter lavorare, ma è l’ILVA  che deve offrire qualcosa in più per operare sul territorio.
 

Lo spazio di discussione è, dunque, più ampio di quanto si faccia credere e va ulteriormente allargato. Oggi, infatti, è necessario ripensare la struttura economica del Mezzogiorno e Taranto ne è una realtà archetipica. Anche ipotizzando di risolvere le questioni 1-3 di cui sopra e che l’azienda si impegni ad usare tecnologie verdi (ma chi si fiderebbe ormai?), non credo che lo sviluppo di Taranto possa continuare a passare per la produzione di acciaio, un settore ovviamente maturo. La città ha bisogno di un riammodernamento della struttura produttiva a prescindere dall’ILVA, magari ridando centralità alle attività portuali, come da PON Trasporti, sebbene gli investimenti necessari risultino essere fermi.

 

In questo frangente, il Ministero dello Sviluppo Economico dovrebbe lanciare un’attività di riprogrammazione economica dell’area, così come il Ministero per la Coesione Territoriale fece per l’Aquila, con discreto successo, almeno in termini di discussione.


[i] Pirro, F. (2011), L’incidenza dello stabilimento siderurgico dell’ILVA di Taranto sull’economia provinciale e regionale, Rassegna economica del Mezzogiorno, 25(1-2): 235-264.

[ii] European Environment Agency (2011), Revealing the costs of air pollution from industrial facilities inEurope, EEA Technical Report No. 15.


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