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Marche: laboratorio per una nuova economia civile

di Marco Percoco

C’è stato un tempo in cui l’Italia cresceva a ritmi forsennati, nascevano imprese a tassi vertiginosi e come pure ci ha trasmesso Il maestro di Vigevano, il sogno nel cassetto di molti era quello di diventare imprenditore, di “mettersi in proprio”. In quell’Italia degli anni ’50 e ’60 nascevano le fortune di alcuni territori dell’Italia Nord-Occidentale, del Veneto, ma anche dei territori di quella che venne chiamata la “Terza Italia”, uno spazio enorme il cui cuore batteva forte nelle Marche, tra le colline dell’entroterra ed il porto di Ancona.

L’industrializzazione dei saperi e delle tradizioni locali aveva prodotto una capillare presenza di distretti industriali, tanto che ancora oggi le Marche sono tra le regioni a più elevata propensione imprenditoriale. Purtroppo, però, pure l’incantesimo dello sviluppo si è rotto da tempo. Secondo la Banca d’Italia, i problemi principali dell’economia marchigiana sono:

1. le imprese non hanno piani di espansione produttiva degli impianti per il 2015 (questo può essere dovuto ad un eccesso di prudenza o a scarsa fiducia o, ancora, a capacità produttiva ancora non utilizzata);

2. il credito si contrae costantemente, così che famiglie e PMI appaiono razionate;

3. c’è un eccesso di specializzazione nelle esportazioni verso la Russia e questo, dato il quadro geopolitico, potrebbe essere un problema serio (soprattutto per il calzaturiero);

4. nelle Marche ci sono molti più fallimenti che altrove (significa che c’è un deterioramento del tessuto imprenditoriale), i distretti sono in sofferenza.

Per oltre un decennio, le Marche non hanno avuto una chiara strategia di sviluppo ed anche gli ultimi documenti di programmazione risalenti al 2014 non contengono una visione chiara del percorso e della spinta che si intendono imprimere al territorio. Eppure, l’esercizio da compiere è ad un tempo semplice e stimolante.

Se penso alle Marche, mi vengono in mente belle città con una buona qualità della vita ed un grande spirito cooperativo. Stupisce molto che, mentre il resto delle regioni europee punta su questi fattori, nei documenti del 2014 che dovrebbero definire la strategia di sviluppo non ve ne sia menzione alcuna.

Mi sembra che la (ri)nascita di un’economia civile sia un risultato da cercare, insieme, naturalmente, alla preservazione del tessuto industriale già esistente. Nelle Marche è davvero possibile integrare tradizione e innovazione per costruire un distretto sociale diffuso su tutto il territorio.

Alcuni punti specifici che affronterei:

a) Stimolare la creazione di una rete diffusa di cooperative o imprese sociali che possano offrire non solo servizi sociali ad un mercato ampio di soggetti (anziani e famiglie), ma anche alle imprese forprofit. Anche l’innovazione tecnologica che tanto cercano le regioni europee può venire da consorzi o cooperative, favorendo tra l’altro lo sfruttamento di economie di scala.

b) Filiera dell’imprenditorialità: bisogna accompagnare i talenti imprenditoriali nella definizione del loro progetto, sino al momento del finanziamento. E’ molto importante assecondare le inclinazioni personali, ma è altrettanto importante avere delle preferenze settoriali. Gli incubatori di imprese o le strutture per l’imprenditorialità diffusa giustamente chiedono il finanziamento regionale, ma perché non incentivarne l’autonomia finanziaria, accompagnandole nella circa di un mercato extra-regionale, dunque più ampio?

c) Le imprese marchigiane soffrono per il credito e immagino sia lo stesso per i potenziali imprenditori. Un Fondo di Venture Capital è importante, se la “gara” per ottenerne i finanziamenti è davvero competitiva e se è gestito da persone esterne alla regione, per evitare fenomeni di clientelismo.

d) Si parla molto di internazionalizzazione, ma mi pare che il problema principale non sia la presenza sui mercati esteri in sé. Piuttosto direi che il problema è la diversificazione dei mercati serviti (e.g. Russia per il calzaturiero), così come ho l’impressione che tutte le imprese che possono esportare già lo fanno. Se così è, bisogna portare buyers indonesiani, malesi, argentini, sudafricani, polacchi nelle Marche, evitando le classiche “gite sociali” che ben poco producono.

Le imprese marchigiane hanno delocalizzato la produzione negli ultimi 20 anni. Di questo non c’è menzione nei documenti di piano, sebbene nel mondo si parli oggi di re-shoring, ovvero di ritorno delle imprese al paese di origine a causa della convergenza del costo del lavoro. Dunque, i margini per il re-shoring crescono, perché non sfruttarli anche per le Marche? La fiscalità è importante (ma non credo sia una leva), ma ci sono altri punti: le zone industriali dotate di tutti i servizi, soprattutto logistici e telematici.

Le Marche sono il Midwest italiano, il cuore pulsante della nostra vitalità imprenditoriale, eppure stanno attraversando anni di crisi profonda che non minaccia solo il suo benessere, ma le fondamenta stesse del suo modello di sviluppo. Delineare una strategia, in questo caso, non può essere un esercizio di stile, ma deve essere qualcosa di concreto e che parta dai principi civici su cui ha preso le mosse il suo percorsa di crescita regionale nel dopoguerra.


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