Economia & Impresa sociale 

Non abbiamo bisogno di filantropi. Abbiamo necessità di Cooperative Commons

di Luca Raffaele

La cosa più importante che si deve rifiutare oggi è l’ideologia liberale del vittimismo, con la sua riduzione della politica a un programma per evitare il peggio, per rinunciare a tutti i progetti positivi e seguire la scelta del meno peggio

Slavoj Žižek

Le parole di Žižek sono quanto mai attuali, specialmente perché, come osservò amaramente lo scrittore viennese Arthur Feldmann, il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita.

La nostra situazione di “bisogno” ci fa concentrare solo sugli effetti di questa emergenza e non su come risolvere le sue reali cause.

In questi giorni, sentiamo i grandi proclami di filantropi che donano somme di denaro incredibili ma che approfondendo, sotto strati di polvere pubblicitaria, è come se ci dicessero che il modello di economia e società al quale tornare rimane quello di "ieri". Se facciamo due conti, capiamo che l'ammontare di questi soldi non è poi così grande rispetto alla somma che è stat versata al fisco italiano. Sicuramente parliamo di un procedimento "legale", ma non per questo meno predatorio, come il processo di elusione fiscale.

Ho sentito diversi amici e colleghi ringraziare la grande realtà X o la grande realtà Y per avere supportato l'economia italiana in questo momento di crisi senza pensare che quei pochi spicci donati non erano nulla in confronto ai milioni, a volte miliardi, che vengono sottratti dal nostro sistema di welfare o al nostro sistema pensionistico, e che fa addirituttra ridurre i posti letto in terapia di emergenza o il numero di medici pronti a curarci.

Per fortuna qualcosa si muove intorno a noi. Prendiamo solo come esempio quello della Francia, che viene dopo la reazione della Danimarca, che ha sancito pubblicamente il "non bisogno" di filantropi incoerenti che donano parte dei loro soldi, ma al contempo ne rubano altri con le loro sedi protette in paradisi fiscali.

Siamo tutti d'accordo sul riprendere le parole di Mette Frederiksen rispetto al fatto che se un'azienda ha beneficiato di fondi pubblici, questa non potrà questa pagare dividendi agli azionisti e non poitrà riacquistare azioni. Noi dovremmo fare lo stesso e spingerci anche oltre.

Il discorso del 16 maggio del premier Conte fa ben sperare su questi aspetti e anche sul fatto che l'Italia deve giocarsi una partita tutta casalinga in Europa, in un momento in cui sembra folle e insensato ascoltare qualsiasi notizia di altre partite sportive da disputare, per rendere l'Italia più attrattiva per le imprese che in modo coerente e sostenibile decidono di investire su lavoratori e ambiente.

Se facessimo come la Francia e la Danimarca spazzeremo, con un solo colpo di scopa, tutte le pubblicità dei nostri filantropi nostrani che dovrebbero subito gettare via la maschera o quanto meno sostituirla con un'altra di Pirandelliana memoria. Ma questa confusione deriva in gran parte da noi cittadini.

Basti pensare come, nelle nostre vite di tutti i giorni, confondiamo il concetto di carità con quello di filantropia che non sono sinonimi, anche se si riferiscono allo stesso oggetto.

Per carità, entrambe meritano di essere incoraggiate e sviluppate ma la filantropia tende a creare un senso di dipendenza dall’altro. Un divario incolmabile tra colui che viene assistito e il suo benefattore. Poi quando questo presunto benefattore è anche solo di facciata, non parliamo dei suoi altri effetti degenerati.

Il problema è che alcune volte le sfide che dobbiamo affrontare sono molto più grandi di noi e facciamo di tutto per chiedere aiuto al "primo che passa" senza farci troppe domande.

Facile dire di voler cambiare l'attuale paradigma economico. Dall’altro lato, difficile è rendere concreto e coerente questo cambiamento.

Burke sintetizzava magistralmente questa esigenza di cambiamento reale, dicendo che la società è un contratto tra coloro che sono vivi, coloro che sono morti e coloro che devono ancora nascere. Forse è proprio qui che dovremmo ripartire. Dai nostri figli, nipoti e dai figli e dai nipoti che verranno.

Se pensiamo allo scontro difficile che stiamo disputando contro il Coronavirus, su un piccolo ring di una marginale cittadina, questo sembra essere poco più di una lotta tra dilettanti rispetto al nostro gigantesco avversario, che ci guarda vicino alle corde con un sorriso tra le labbra. Questo nemico fortissimo e sornione si chiama cambiamento climatico. Ma perché se ne parla così poco in questi giorni?

Semplicemente perché questo problema è tutto "interno" alla nostra società e non è portato/limitato dalle/alle altre specie?

Perché, forse, come ci ricordano antropologi come Jared Diamond e Ronald Wright, le civiltà umane del passato come quella sumera, romana, maya, Isola di Pasqua hanno già fatto su scala minore quello che il nostro sistema economico ha deciso di fare su scala planetaria e ne siamo terrorizzati?

Lo schema è familiare, prima una civiltà trova il modo per estrarre valore dall’ecosistema: agricoltura, irrigazione, pesca, capitalismo. La formula funziona così bene che alla fine le risorse si esausriscono, Commons in senso generico, come mercato o Stato, riferendomi a tutti i doni che ereditiamo o creiamo collettivamente. Doni che rientrano in 3 categorie come natura, comunità e cultura e sperperiamo senza rendercene conto.

In secondo luogo in una democrazione capitalistica lo Stato mette in palio diversi "premi di valore". A vincerli è chiunque accumuli la maggiore quantità di potere politico. I premi includono diritti di proprietà, leggi benevole, sussidi, tagli, alle tasse e uso gratuito o molto ecoomico dei beni comuni. L’idea di uno Stato che promuova il bene comune è tristemente ingenua. Lo so bene.

La terza questione è che quando i sostenitori del libero mercato amano dire che il capitalismo è una precondizione per la democrazia, si scordano di aggiungere che il capitalismo distorce la democrazia.

L’unico contrappeso è il governo ma il governo non può essere il solo, soprattutto per gli interessi organizzativi che sono presenti al suo interno.

Una possibile via di uscità è fuori da qualsiasi immagine di capitalismo/capitalista buono, attraverso una riprogrammazione delle aziende. Dovremmo ripartire dai modelli virtuosi e coerenti che abbiamo in Italia, ce ne sono tanti, e fare in modo che le altre realtà che operano nel nostro territorio siano guidate da qualcosa di diverso dal profitto.

Per questo mitivo guardate questi dell'Alaska permanent Fund cosa hanno fatto!

In quei territori, dopo moltissime battaglie per l’estrazione del petrolio si è trovato un accordo con la comunità locale, dicendo che il 75% degli introiti del petrolio statale sarebbero andati al governo come rimborso per le tasse. Il restante 25% sarebbe finito nel fondo e sarebbe stato investito dell’interesse di tutti gli abitanti.

A partire dal 1983 il fondo è creciuto fino a 30 miliardi di dollari e ha pagato ogni anno dividendi identici a tutti i cittadini, bambini inclusi. La loro situazione è molto diversa dalla nostra ma sicuramente ci può fornire diversi stimoli per agire in chiave cooperativa. Dategli un'occhiata https://apfc.org/

Ci sono alcuni concetti alla base di questa vecchia, ma sempre attuale sperimentazione di cooperative common, che Peter Barnes ha sintetizzato magistralmente.

Lasciare abbastanza beni in comune

Come sosteneva Locke privatizzare parte dei commons è giusto fintanto ne restano abbastanza e di buona qualità per tutti e per sempre.

Mettere al primo posto le generazioni future

Alcune corporation mettono al primo posto gli interessi degli azionisti mentre un trust di beni comuni dovrebbe essere penalmente responsabili nei confronti delle generazioni future.

Più siamo meglio è

Principio che si rifà alla cultura di internet, con la quale sono cresciuto, che non hanno vincoli fisiti e in cui l’aumento dell’utilizzo scatena sinergie.

Una persona una quota

Per quanto riguarda la natura occorrerà distinguere tra diritto d’uso e diritti monetari. Infatti è impossibile che tutti possano usare un bene comune in modo equo ma tutti possono ricevere quote eguali del reddito, derivante dalla vendita d’uso limitati.

Esistono anche altri esempi, più vicino a noi e degni di nota, come Trebah Garden Trust e la domanda vedendo cosa hanno fatto queste esperienze, sorge spontanea. Ma se anche noi, in vista di un cambiamento che non è più facoltativo ma obbligatorio e urgente, ripensansissimo al modo in cui vengono utilizzati i beni comuni?

Ma le cose in Italia si stanno già muovendo. in un modo diverso ma pur sempre collegato con la gestione dei beni comuni. Ad esempio l'idea porta avanti anche da Leonardo Becchetti di mettere al centro dei programmi regionali, il lavoro e il benessere delle comunità locali per creare ecosistemi digitali, che potrebbero essere definiti "commons infrastrutturali" che servono a tutti (es. clouds per scambio informazioni sanitarie tra i medici di base).

La pandemia ci ha sorpreso tutti ma sono consapevole che alcuni sono stati più privilegiati di altri. Pensare ad un Cooperative Common Italia capace di tutelare e investire nelle future generazioni è un'idea che mi appassiona e sulla quale continueremo a lavorare.


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