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Suffragette: Meglio ribelle che schiava

di Nawart Press

Deeds, not words. Azioni, non parole. E’ Suffragette, una pellicola inglese con cast e produzione al femminile, ad aver inaugurato la trentatreesima edizione del Torino Film Festival (TFF) lo scorso 21 novembre, e ad aver fatto riflettere gli spettatori, anche grazie ai suoi slogan ben scanditi, su un tema molto attuale. “In pochi sanno quanto dobbiamo a quelle donne, che non avevano paura di niente,” ha affermato la regista Sarah Gavron dal palco del Lingotto, prima che la proiezione avesse inizio e che, per le scelte contenutistiche più che formali, lasciasse il suo pubblico a tratti interdetto.

Suffragette è un film che, per il tema importante che ha scelto di trattare quasi da pioniere, non poteva essere più atteso – purtroppo il pubblico italiano dovrà aspettare fino al 16 marzo per vederlo in sala – e, per come ha deciso di raccontare le gesta delle suffragette britanniche e la loro strenua battaglia per il diritto al voto, apre, senza chiudere, un dibattito dal sapore tutto contemporaneo.

La scelta della Gavron di concentrare il film attorno ai sedici mesi cruciali in cui, a cavallo tra 1912 e 1913, l’ala armata del movimento suffragista fondato e diretto da Emmeline Pankhurst (interpretata, anche se come personaggio secondario, da Meryl Streep) ha raggiunto l’apice della sua lotta con azioni violente e mirate, sembra inizialmente voler dare una precisa chiave di lettura. Ma, più il film avanza e si fa drammatico, più è difficile capire se questi atti efferati abbiano in realtà giocato a favore, o al contrario reso più ostico e lungo, il percorso intrapreso da queste intrepide donne.

I’d rather be a rebel, than a slave. Preferisco essere una ribelle, che una schiava. La protagonista di Suffragette (Carey Mulligan, diventata famosa per Un’Educazione) non è una delle leader alto-borghesi del movimento – tra cui, a parte la Pankhurst, nel film compaiono una delle voci più solide della resistenza armata, Edith Ellyn (impersonata da Helena Bonham Carter), e l’artefice dello spettacolare gesto con cui si chiude il film, Emily Wilding Davison (interpretata da Natalie Press) – bensì Maud Watts, personaggio di finzione e operaia come tante. “Riassume l’atteggiamento di tante donne che sono passate dall’essere osservatrici passive alla militanza più fervente,” ha detto la sceneggiatrice Abi Morgan durante la conferenza stampa, ma anche il bisogno di parlare delle donne in quanto vittime, ieri come oggi, di abusi e sfruttamento sul posto di lavoro. “Si pensi alla differenza salariale a parità di professione, all’importanza di avere il diritto di tutela sui figli, le violenze sessuali, il traffico di schiave…” spiega ancora la regista.

Never give up, never surrender. Mai mollare, mai arrendersi. Dopo molti arresti, abusi e minacce, le forze di polizia inglesi sembrava fossero riuscite a mettere temporaneamente a tacere l’eco suscitato dalle gesta memorabili delle suffragette in Inghilterra. Almeno fino a quell’indimenticabile 4 giugno 1913, quando durante il Derby di Epsom la Davison – poco dopo aver scandito uno dei motti più noti del movimento e aver fissato la Watts negli occhi – si è lanciata di fronte al cavallo del Re Giorgio V. Gli storici moderni ritengono che la donna volesse solo attirare l’attenzione senza aver calcolato bene i rischi, ma la Gavron sembra puntare per l’opzione suicida. Ad ogni modo, l’incidente fu fatale e ne seguì un funerale di enormi proporzioni, dove migliaia di suffragette e centinaia di migliaia di cittadini ordinari trasportarono la bara della Davison – assieme agli slogan del movimento femminile – per tutta la capitale.

Chi si aspettava una risposta schietta a una forma di lotta esplicita e violenta rimane deluso, mentre il messaggio finale del film si allontana dai fatti narrati per elogiare la forza e la caparbietà delle suffragette, e vuole, riuscendoci, attualizzare una lotta più che centenaria. Mentre i titoli di coda scorrono e attestano come la battaglia per il voto sia stata lunga e in alcuni paesi ancora da concludersi, vedi in Arabia Saudita, la Gavron dice: “Abbiamo deciso di non concentrarci sul destino dei personaggi ma piuttosto sui traguardi raggiunti e ancora da raggiungere in termini di parità di diritti e, al contempo, perseverare nell’intento di dare voce a chi non ne ha.”


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