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Unione Africana: Burundi, CPI e… parità di genere

di Nawart Press

Il 26º Summit dell’Unione Africana, terminato il 31 gennaio 2016 ad Addis Abeba, ha affrontato gravi problematiche, come la decisione di non intervenire in Burundi, la strategia anti-terrorismo e l’offensiva contro la Corte penale internazionale.

Ma come ogni anno, prima dell’inizio dei lavori, ha avuto luogo il pre-summit per l’uguaglianza di genere, diretto da Nkosazana Dlamini Zuma, presidente della Commissione dell’Unione Africana e dal Consiglio direttivo per Donne, Genere e Sviluppo con Mahawa Kaba Wheeler.

Il 2016 sarà il secondo anno di fila in cui diritti umani e uguaglianza di genere sono una priorità, consacrandolo a “Anno per il rispetto dei diritti umani con un focus sull’uguaglianza di genere”.

In un’intervista di IPS, Mahawa Kaba Wheeler enuncia i gravi problemi di genere che ancora pervadono nel continente. Nonostante la maggioranza della popolazione africana sia composta da donne, il limitato accesso al settore economico formale, allo studio, al lavoro e alla sanità rimangono delle forti barriere per le pari opportunità.

“È giunto il momento di alleviare la moltitudine di barriere per l’uguaglianza di genere: l’esclusione alla vita economica e finanziaria; la limitata partecipazione alla vita pubblica e politica; il limitato accesso all’educazione; la violenza di genere; le pratiche culturali che portano all’esclusione delle donne dai negoziati di pace sia come leader mediatori che nelle team di negoziazione” dice Mahawa Kaba Wheeler a IPS. “Rimuovere queste barriere che impediscono alle donne di fruire dei loro diritti umani, potrebbe rilanciare l’intero continente”.

L’Africa è in un punto di svolta, è una delle regioni con una crescita economica tra il 2 e l’11%. Le donne danno un enorme contributo all’economia, sia negli affari che in agricoltura, sia nelle imprese che come impiegate, o con il lavoro a casa. Ma continuano a subire in modo sproporzionato la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

È il trentesimo anniversario della Carta Africana dei diritti umani e della persona (1986) e l’inizio della seconda fase della African Women’s Decade 2010-2020.

“Il circolo vizioso che ha culturalmente e politicamente incatenato le donne africane non è ancora finito. Ma alcuni grandi passi sono stati fatti.Infatti 15 stati africani sono tra i top 37 della classifica mondiale per la partecipazione femminile nei parlamenti nazionali con più del 30% con il Rwanda (64.8%) in testa[1].

“Ma anche in questo caso, il Rwanda è il leader mondiale per la partecipazione femminile in parlamento, ma resta indietro quando si tratta di donne in posizioni esecutive”.

“Tre dei 54 capi di stato e di governo sono donne: la presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleag, la presidente delle Mauritius Ameenah Gurib-Fakim e la presidente a interim Catherine Samba Panza della Repubblica Centrafricana”.

L’Unione Africana riconosce che essendo le donne la metà della popolazione africana, raggiungere la parità di genere in politica potrebbe creare un effetto domino in molti settori delle società.

“Ma la discriminazione nella sfera pubblica resta troppo alta” spiega Kaba, “in alcuni stati membri, la legislazione nazionale e le costituzioni colpiscono duramente la partecipazione femminile nella vita pubblica, limitandola con clausole discriminatorie”.

Le donne producono più del 60% dell’agricoltura, e costituiscono più del 50% della popolazione rurale e sono le prime custodi della sicurezza alimentare, ma gli investimenti nel settore per migliorare e creare il loro vero potenziale restano quasi nulli”.

Inoltre, “la maggioranza delle donne non sono proprietarie e non hanno alcun accesso alle infrastrutture agricole, diritti di proprietà terriera, tecnologie, crediti o trainings. Quindi anche se producono non hanno accesso al mercato e questo comporta un enorme spreco e nella maggioranza dei casi di costi per pagare il middle man con conseguenza primaria di abbattere il prezzo di vendita, pauperizzando le zone più rurali”. Oltre a pagare questi surplus, in ancora molti casi non hanno diritto di ereditare la terra. L’accesso alla terra rimane tuttora uno degli impedimenti più critici per il potere economico, sociale e politico delle donne.

Dall’altra parte il mancato accesso all’educazione superiore, blocca le donne in lavori con salari bassi, “e minori rispetto alla controparte maschile”.

Tuttora, le donne costituiscono la maggioranza della popolazione del continente che vive con meno di un dollaro al giorno”.

 

[1] Seychelles (43.8%), Senegal (42.7%), Sud Africa (42%), Namibia (41%), Mozambico (39.6%), Etiopia (38.8%), Angola (36.8%), Burundi (36.4%), Uganda (35%), Algeria (31%), Zimbabwe (31.5%), Cameroon (31.3%), Sudan (30.5%) e Tunisia (31.3%)


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